Caso Diciotti. Ricordiamocelo sempre: chi chiamiamo «gli altri» siamo anche tutti noi
La vicenda della nave Diciotti continua nei suoi esiti a occupare le cronache, rivelando diversi nodi cruciali delle politiche dell’asilo e del nostro atteggiamento nei confronti dei rifugiati. Un primo nodo riguarda la libertà di movimento. Un amico parroco mi ha detto: «Diversi parrocchiani sono sconcertati dalla fuga di tanti eritrei accolti dalla Caritas: pensano che la Chiesa abbia fatto una brutta figura».
Dietro questa percezione, forse diffusa o forse no, spuntano alcuni presupposti impliciti che vale la pena di discutere. Uno è che i richiedenti asilo siano e debbano essere soggetti passivi delle politiche di accoglienza: devono stare docilmente dove noi decidiamo di metterli. Secondo il commento del ministro Salvini, se sono usciti dall’accoglienza non erano poi tanto disperati e bisognosi. Come se il diritto all’accoglienza fosse subordinato a una condizione di incapacità e di miseria. Nello stesso tempo, si pensa che i profughi debbano essere sorvegliati a vista, come dei semi-prigionieri o dei soggetti pericolosi.
Un altro presupposto è che non abbiano né legami sociali, né conoscenze delle condizioni economiche e politiche delle regioni d’Europa. Che non sappiano che in Germania e in Svezia le politiche dell’asilo sono meglio organizzate e più generose nei loro confronti (gli eritrei come i siriani ricevono quasi sempre lo status di rifugiati), mentre il mercato del lavoro è più ricettivo.
Questi rifugiati indocili, capaci di aspirazioni e di scelte diverse da quello che noi abbiamo pensato sia bene per loro, ci mettono in confusione. Di certo rivelano ancora una volta il limite maggiore delle politiche dell’asilo dell’Unione Europea: non solo e non tanto l’esigua redistribuzione dei rifugiati tra gli Stati membri, quanto piuttosto la negazione della loro libertà di scegliere dove ricostruire la propria vita. Ho già accennato alla presunta pericolosità e alla necessità di sorveglianza.
Con zelo degno di miglior causa, forze dell’ordine in tenuta anti-sommossa hanno prelevato un gruppo di 16 eritrei al centro sociale Baobab, dove erano in coda per una visita medica, e li hanno trattenuti per sei ore con la motivazione di doverli identificare. L’idea che gli sbarchi e la presenza di profughi rappresentino un vulnus per l’ordine sociale origina queste scenografiche esibizioni di severità, volte a riaffermare la sovranità dello Stato.
Un terzo e più inquietante episodio, nonostante le successive frenate, è rappresentato dall’apertura di un conflitto con la magistratura da parte del ministro Salvini, via social networks, proprio sul caso Diciotti. La magistratura palermitana contestandogli il reato di sequestro di persona ha ricordato a lui e a tutti noi che i profughi sono anzitutto persone, che non possono essere trattenute per giorni su una nave, fra l’altro priva di servizi essenziali, per ragioni politicopropagandistiche. Salvini, aprendo la busta con l’avviso di garanzia in diretta, e leggendolo di fronte alla videocamera, ha fatto appello al consenso degli elettori come se questo bastasse ad affrancarlo dai vincoli costituzionali, dalle leggi dello Stato e dal controllo del potere giudiziario.
Anzi, ha sostenuto che l’avviso di garanzia colpisce 60 milioni di italiani: il popolo della nazione nel suo complesso, di cui s’intesta la rappresentanza. L’aver scelto il terreno dei diritti dei profughi non è casuale. Salvini sa che la difesa dei migranti, che non possono votare, è politicamente impopolare, mentre la negazione dei loro diritti in questa fase politica rende. Qui non si tratta di un conflitto tra élites globaliste e popolo sovranista. Per chi ha a cuore le sorti della democrazia diventa chiaro che i diritti dei rifugiati e degli immigrati sono legati in modo indissolubile alla qualità della convivenza e ai diritti di tutti.
Università di Milano e Cnel