A 50 anni dalla bomba a Milano. Ricordare Piazza Fontana è celebrare i buoni maestri
L’esterno della Banca Nazionale dell’Agricoltura a Milano dopo l’attentato del 12 dicembre 1969
La tragica esplosione che squarciò un tranquillo pomeriggio pre-natalizio di 50 anni fa di Milano – erano le 16.37 del 12 dicembre 1969 – per un significativo segmento del popolo italiano segnò il fischiò d’inizio dei tempi supplementari di una guerra fratricida che si pensava archiviata da oltre 20 anni, con l’entrata in vigore della Costituzione. Fu il giorno della «perdita dell’innocenza», secondo una lettura un po’ semplicistica, funzionale a buttare sempre in campo avverso tutte le responsabilità, con l’effetto di procrastinare sine die il momento della possibile riconciliazione. In realtà il movimento della Contestazione, nel corso del cosiddetto autunno caldo, era già attraversato dal virus della violenza di cui aveva fatto le spese a Milano il giovane agente Antonio Annarumma che perse la vita massacrato da un tubo Innocenti (nell’omertà dei manifestanti più facinorosi presenti alla scena) durante uno sciopero segnato dagli scontri di piazza in tempi in cui le camionette della polizia non erano ancora blindate.
Pochi giorni prima Renato Curcio in una riunione di movimenti e gruppi rivoluzionari tenutasi al pensionato cattolico 'Stella Maris' di Chiavari aveva già messo in campo l’opzione armata se anche in Italia si fosse presentato il rischio di una svolta autoritaria, come accaduto nell’aprile del 1967 in Grecia con il 'golpe dei Colonnelli'. Quell’orrenda morte del 22enne agente irpino a Milano creò un clima drammatico. Tanto che, al suo funerale, il commissario Luigi Calabresi dovette portar via energicamente Mario Capanna per sottrarlo al linciaggio degli agenti che considerarono la presenza del leader del movimento studentesco alle esequie una vera e propria provocazione. Più che 'innocenza', dunque, c’era tanta brace ardente e una mente cinica e raffinata decise di soffiarci sopra collocando una bomba in un luogo simbolo nel cuore della città, a due passi dall’Arcivescovado, alle spalle del Duomo, nella banca dove la gente dei campi nel fine settimana effettuava le ultime contrattazioni. Le vittime furono 17, ma potevano essere molte di più. Apparve subito chiaro un disegno più ampio, quando – in contemporanea – un altro ordigno fu disinnescato alla 'Commerciale' della centralissima piazza della Scala e altri 3 episodi si verificarono a Roma nel giro di pochi minuti.
Quella parte del movimento della Contestazione, già contagiata dal virus della violenza, considerò che era l’ora di agire. Anche la Chiesa fu attraversata da grandi fermenti. Dentro Gioventù studentesca, nelle Acli, nelle parrocchie, iniziaro- no a circolare, tradotti dall’editore Giangiacomo Feltrinelli, le opere dei rivoluzionari sudamericani: tanti giovani furono catturati dal mito di 'Liberazione o morte', il libro scritto dal prete colombiano Camillo Torres, che perse la vita da combattente al fianco dei più poveri. L’ufficio Affari riservati del Viminale fu probabilmente l’artefice, per ragioni oscure, del tragico abbaglio della Questura milanese che inseguì per prima – come aveva fatto per gli attentati di aprile – la pista anarchica, segnata dalla tragica morte del ferroviere Giuseppe Pinelli. Quella che seguì fu una lunga storia di depistaggi e giustizia negata, ma – come sostiene anche Gianni Oliva, lo storico delle Foibe, non certo tacciabile di simpatie a sinistra, e come ha scritto su Avvenire Agostino Giovagnoli – la verità storica il popolo italiano la conosce: a programmare quella strage e tutta la strategia della tensione che ne seguì – seminando morte fra i cittadini inermi nelle piazze, davanti alle sedi istituzionali, nelle stazioni e nelle gallerie ferroviarie – furono personaggi di matrice chiaramente neo-fascista, con una centrale ben precisa individuabile in Ordine nuovo del Veneto.
Ad aggiungere certezze a una verità storica acclarata già dalla stessa pronuncia di assoluzione degli imputati, è arrivata solo di recente, dopo 40 anni, la sentenza per un’altra orrenda strage, quella di piazza della Loggia a Brescia, del 28 maggio 1974, che a fronte di una verità storica identica a quel- la di piazza Fontana – stessa identica matrice – è riuscita anche a inchiodare i colpevoli, regalando giustizia agli anziani superstiti. Un risultato tardivo ma significativo che suggella l’opera meritoria di 'custodia' della memoria di Manlio Milani, instancabile presidente dell’associazione vittime, che i fascisti resero vedovo da giovane sposo e che oggi va in giro nelle scuole a tendere la mano al 'nemico' dicendo: «Sbagliavamo anche noi a invocare nelle piazze la morte dei fascisti». Viene da pensare che questa impostazione mite e tenace della difesa della memoria possa aver contribuito a fare chiarezza. Perché, come dice Agnese Moro, il bene è un maratoneta: a differenza del male non è poderoso allo stesso modo nello scatto iniziale, ma si prende la scena per ultimo, alla fine, premiando la fede e la perseveranza di chi lo attua.
E allora, in questo diluvio di denunce e rievocazioni delle ombre sulla strage, non è possibile lasciare ai giovani la sensazione che parteggiare per il bene, per la giustizia, per la verità, si riveli un impegno inutile. Come non ricordare che in quella stessa piazza Fontana uno sconosciuto si presentò a don Paolo Cortesi, segretario del cardinale Carlo Maria Martini, e abbandonò sul tavolo tre borse, contenenti fucili, pistole e bombe a mano. Era il il 13 giugno 1984, e in questo modo Prima linea nel chiudere la sua tragica esperienza volle dare atto al presule che più di tutti, con i cappellani delle carceri, aveva consentito a dei brutali assassini di poter di nuovo guardare a se stessi come a degli uomini. Che avevano sbagliato, ma uomini. Condannati recuperati al vivere civile come chiede di fare lo splendido articolo 27 della nostra Costituzione voluto più di tutti proprio da Aldo Moro. Oggi, mezzo secolo dopo, ai giovani va ricordato che quella pagina è stata chiusa nel rispetto delle leggi e dei princìpi di umanità, e questo – insieme alla capacità di prevenzione affinata dagli apparati di sicurezza proprio in quella sanguinosa stagione – ha contribuito a creare un modello, in grado di tenere l’Italia al riparo, puntando sul dialogo e sul diritto, dalle nuove minacce del terrorismo islamico.
Così, ricordare piazza Fontana significa anche ricordare l’appello di Paolo VI agli «uomini delle Brigate rosse» che sarebbe risuonato quasi nove anni dopo. Non ascoltato al momento, ma in grado di gettare un seme ripreso dalla toccante preghiera dei fedeli di Giovanni Bachelet, che davanti alla salma del padre pregò per chi glielo aveva ucciso, e dall’opera profetica di padre Adolfo Bachelet (fratello del vicepresidente del Csm ucciso dalle Br), che con suor Teresilla Barillà percorse accanto a ognuno di quegli uomini finiti sulla strada sbagliata la faticosa via della risalita. Ricordare piazza Fontana significa ricordare anche la storia di uomini delle istituzioni che non fecero uso delle stesse armi del nemico. E, agendo così, scombussolarono i piani dei fautori dell’eversione, spiazzati da questo comportamento. Significa ricordare l’opera della Chiesa, non solo dei cappellani e degli operatori delle carceri. Ma anche dei tanti buoni maestri che proprio in quel momento difficile fondarono associazioni e movimenti cattolici – la stessa Caritas, che prese corpo proprio in quegli anni – per annunciare che la vera salvezza viene da Cristo, brandendo come sola 'arma' la testimonianza. Preti 'reazionari', come li ha definiti da Enrico Deaglio, che in realtà non fecero altro che illuminare quegli anni oscuri con la luce della speranza cristiana offrendo ai giovani una alternativa praticabile alla deriva violenta.