L'analisi. Riconoscere la propria vocazione, una scoperta per «fare la storia»
«L’amore dev’essere messo più nei fatti che nelle parole ». Così insegna Ignazio di Loyola alla conclusione dei suoi Esercizi Spirituali, ma ciascuno di noi può riconoscere per esperienza la verità di questa espressione dal sapore tutto evangelico – «non chi dice Signore, Signore entrerà nel regno dei cieli, ma colui che fa la volontà del Padre mio che è nei cieli» (Mt 7,21) – e decisamente vocazionale. La vita, la volontà del Signore, si fa (si compie, si costruisce, cresce, matura) nella direzione dell’amore e si disfa (soffoca, si inasprisce, diventa sterile) nel senso contrario.
Ho sempre trovato stimolante che l’Ufficio per la Pastorale delle Vocazioni organizzasse il suo Convegno nazionale nei primi giorni dell’anno (l’edizione 2022, in modalità online, è iniziata ieri e terminerà domani) offrendo l’opportunità di annunciare che l’anno nuovo è una rinnovata occasione per costruire qualcosa di buono, edificare il Regno di Dio, rendere il fazzoletto di terra nel quale ognuno vive sempre più simile al Cielo. Del resto, è questa la preghiera di ogni giorno che abbiamo imparato fin da bambini: «Padre Nostro [...] sia fatta la tua volontà, come in cielo, così in terra » (Mt 6,10). Nulla di magico in queste parole, niente di predestinato o precostituito: la costruzione della città terrena non accadrà spontaneamente, la volontà del Padre non si farà da sola, non si compirà senza di noi, non senza l’apporto unico e personale di ciascuno con la sua particolare vocazione, con il suo compito e la sua responsabilità, non senza la sua creatività buona, la sua passione, lotta e fatica. Il Signore stesso, infatti, ha voluto le donne e gli uomini protagonisti della storia, cooperatori della sua opera, perché la potessimo dire anche nostra, sentircene responsabili e prendercene cura.
Il tempo che ci è dato, fatto di relazioni, incontri, scelte, possibilità, somiglia a una terra da lavorare, una trama da intrecciare, una vicenda viva che interpella, chiede di prendere parte, schierarsi, non rimanere neutrali, mettersi in gioco, non stare con le mani in mano. «Fare la storia» ( Fratelli tutti, n.116) è l’espressione di papa Francesco che l’Ufficio nazionale per la Pastorale delle Vocazioni della Conferenza episcopale italiana ha scelto per animare l’anno in corso. «Fare» è un verbo generico, con numerose declinazioni, ma è una parola che indica concretezza, manualità, creatività, coinvolgimento, responsabilità. La vocazione, la storia, il futuro non accadranno come un progetto già tutto confezionato in ogni dettaglio dalle mani di Dio, nemmeno come un inesorabile fato o pagano destino. La vocazione, la storia, il futuro chiedono la responsabilità, quella abilità a rispondere tipicamente umana che coinvolge la libertà di ciascuno, le proprie mani, il nostro agire.
Lungi dal declinarsi in un mero attivismo, quindi, fare la storia – fare la vocazione – significa immergersi nell’oggi attraversando timori e paure per ascoltarne gli appelli, per intuire nei rivoli del tempo la voce dello Spirito che invita e invoca una risposta. Spesso, infatti, l’approcciarsi alla vita, in questo tempo, tende a far percepire il mondo come un palcoscenico sul quale giocare la propria parte e la realtà come una forma vuota sempre da riempire di cose da fare o da avere per allontanare da sé il vuoto e la solitudine. Raramente, al contrario, la storia è riconosciuta come orizzonte nel quale ricercare e riconoscere i volti e i luoghi della propria vocazione, che si realizza in uno spazio sentito come casa e insieme a persone alle quali si comprende di appartenere non tanto per legami di affinità quanto per il desiderio e la volontà ricambiata di donare insieme la vita per amore, di spenderla a servizio di qualcun altro perché possa diventare vita a sua volta, generare nuova storia, portare avanti il Regno di Dio.
"Fare la storia" non è "diventare qualcuno". Infatti, la vocazione parte dalla sperimentata libertà che viene dal Battesimo, dal sapersi conosciuti e riconosciuti come figlie e figli amati, unica direzione che libera dalla brama di guadagnare un posto al sole e dal dover essere riconosciuti come i migliori o dalla convinzione di non essere degni a causa degli errori commessi nella vita, a disperare della misericordia di Dio. Riconoscere la propria vocazione è conoscere la propria preziosità e acquisire la giusta misura di sé, quella sana umiltà che restituisce la certezza di poter compiere il bene possibile, oggi, in quel fazzoletto di terra nel quale abitiamo, unico luogo concreto nel quale seminare le proprie energie, la propria vita, per il bene, nella vita di Dio. Fare la storia è sentire la responsabilità del tempo, del mondo, di ogni persona, è vivere nella solidarietà autentica che permette di pensare e agire non in termini di singoli ma di persone, in comunione.
Forse, in questa declinazione possiamo comprendere maggiormente quanto papa Francesco ha voluto consegnare nel suo discorso ai partecipanti al congresso dei Centri nazionali per le vocazioni d’Europa: «La parola 'vocazione' non è scaduta. L’abbiamo ripresa nell'ultimo Sinodo [sui giovani], durante tutte le sue fasi. La sua destinazione rimane il popolo di Dio, la predicazione, la catechesi e, soprattutto, l’incontro personale che è il primo momento dell’annuncio del Vangelo (cf. Evangelii gaudium, nn.127-129). Conosco alcune comunità che hanno scelto di non pronunciare più la parola 'vocazione' nelle loro proposte giovanili, perché ritengono che i giovani ne abbiano paura e non partecipino alle loro attività. Questa è una strategia fallimentare. Togliere dal vocabolario della fede la parola 'vocazione' significa mutilarne il lessico correndo il rischio, presto o tardi, di non capirsi più» (papa Francesco, Discorso consegnato ai partecipanti al congresso dei Centri nazionali per le vocazioni d’Europa, Roma, 6 giugno 2019).
La vocazione ha a che fare con la vita di tutti perché racchiude una missione che chiama ciascuno a seminare vita laddove si trova. Nessuno spazio è escluso dalla possibilità di essere raggiunto dall’annuncio vocazionale, nessuna persona esclusa dall’essere riconosciuta come unica e preziosa agli occhi di Dio, ciascuno con un’opera da compiere in questa storia, una tessera del meraviglioso mosaico della Redenzione. La vocazione è un’opera artigianale che non si può compiere da soli, senza un Maestro e senza la Chiesa. Per essere iniziati all’arte della vita c’è bisogno del Signore della Vita e di uno spazio, il suo Corpo, nel quale nutrirsi della sua Parola e dei suoi Sacramenti per crescere e vivere della sua stessa vita. La vocazione è un’opera artigianale che esige la risposta di ciascuno, della decisione di mettere le proprie forze in sinergia con quelle di Dio: «Egli che ti ha creato senza di te, non ti salverà – non ti darà la vita piena – senza di te» (Agostino). La vocazione è una missione da compiere (cf. Evangelii gaudium, n.273) un’impresa da portare a termine (cf. Gdt 8,32): c’è una storia da fare insieme al Signore e insieme agli altri occupando la propria vita nella carità, nell’amore.
La storia – la vita, la vocazione – si fa nel concreto di una famiglia, di un presbiterio, di una comunità di vita consacrata, di una comunità di vita monastica, nel diaconato permanente, in un istituto secolare, nella decisione di servire nel laicato la missione ricevuta nel proprio Battesimo. Non in teoria, non in un concetto, ma nella carne viva della storia di una Chiesa locale fatta di volti, storie e relazioni, fatta di ferite e difetti, di potenzialità e di doni, perché solo lì, nel mezzo della storia, è possibile udire l’invito della Parola a dare la vita. È il meraviglioso mistero dell’Incarnazione che contempliamo in questo tempo. Sia per tutti un anno alla (ri)scoperta della propria vocazione.
Direttore dell’Ufficio nazionale per la Pastorale delle Vocazioni
Sottosegretario della Cei (m.gianola@chiesacattolica.it)
È possibile seguire in diretta il Convegno nazionale vocazioni 2022 in corso online e dedicato proprio al tema "Fare la storia".