La "caduta" del cestista. Ricky Rubio, imperfetto e ancora più campione
Ricky Rubio è un atleta con la barba folta, lo sguardo buono e il sorriso sempre stampato sul volto. Sa fare bene tante cose, ma una benissimo, da sempre: giocare a basket. A quattordici anni esordisce da professionista, a diciassette vince una medaglia d’argento ai Giochi Olimpici, a ventuno sbarca in Nba, a ventinove vince con la nazionale spagnola, che giocatori e staff chiamano “La Fami-lia”, il titolo Mondiale. Una progressione lineare, senza soluzione di continuità. Il suo carattere adorabile lo fa diventare uno dei giocatori più amati, tanto a Cleveland dai suoi tifosi di club, quanto da tutti gli spagnoli.
A guardarla da fuori sembra una favola, una storia perfetta, ma una delle caratteristiche tecniche più caratterizzanti del talento cestistico di Ricky Rubio è il “no look”, quel passaggio di palla a un compagno eseguito senza guardare, al fine di disorientare gli avversari. Nello scorso weekend, a pochi giorni dall’inizio del Mondiale, Ricky Rubio ha fatto un passaggio “no look” memorabile: « Ho deciso di interrompere la mia attività professionale per prendermi cura della mia salute mentale», ha scritto sui suoi social. «Voglio ringraziare per tutto il sostegno che ho ricevuto. Oggi ‘La Familia’ ha più senso che mai».
Ricky Rubio - Archivio Ansa
Così, all’improvviso. Alessandro Baricco, in un passaggio del suo “Novecento”, scrive: « A me m’ha sempre colpito questa faccenda dei quadri. Stanno su per anni, poi senza che accada nulla, ma nulla dico, fran, giù, cadono. Stanno lì attaccati al chiodo, nessuno gli fa niente, ma loro a un certo punto, fran, cadono giù, come sassi. Non c’è una ragione. Perché proprio in quell’istante? Non si sa. Fran». Così, senza preavviso, il quadro meraviglioso di Ricky Rubio è caduto, come era successo a Michael Phelps, a Naomi Osaka, a Simone Biles e a tanti atleti icone di successo, forza, resilienza. Fran. Caduti. O almeno “caduti” agli occhi di coloro che non riescono a capire come sia possibile che tutto ciò accada a un ragazzo che fa la cosa che più ama al mondo, guadagna molto ed è baciato dalla fama.
Invece c’è un sottotesto forse un po’ amaro, ma delicatissimo dietro a queste storie: ovvero che non esistono (e certamente non ne abbiamo bisogno) superuomini o superdonne. Esistono persone, comprese quelle che sembrano così solide, che a un certo punto hanno bisogno di fermarsi e chiedere aiuto, hanno bisogno di una squadra, quella che Ricky Rubio chiama “La Familia”. Lo aveva detto, in un momento difficile, Michael Phelps, parlando della sua depressione: « Bisogna avere la forza di ammettere la propria vulnerabilità, non siamo perfetti».
Proprio quello stesso Phelps capace di battere il record di Leonida da Rodi, l’atleta dell’Antica Grecia e vincitore di 12 titoli individuali nelle Olimpiadi antiche. Il suo record era rimasto imbattuto per oltre duemila anni, fino a quando Phelps, ai Giochi di Rio del 2016, vinse la sua tredicesima medaglia d’oro individuale. Campioni imperfetti, Phelps, Osaka, Biles, Rubio. Proprio per questo ancora più campioni. Proprio per questo capaci di regalarci ancora più onestà, esempio e ispirazione.