Opinioni

Solitudine come malattia / 3. Restare soli è come morire. Rete per aiutare gli anziani

Marco Trabucchi venerdì 19 aprile 2019

Doriano Solinas "Barriere"

«Farsi prossimo significa impedire che l’altro rimanga in ostaggio dell’inferno della solitudine. Purtroppo la cronaca ci parla spesso di persone che si tolgono la vita spinte dalla disperazione, maturata proprio nella solitudine». Queste parole di papa Francesco nella loro durezza descrivono le conseguenze del sentirsi soli: un inferno che può portare al suicidio. Su questa linea, una diffusa affermazione, largamente riprodotta in molte pubblicazioni scientifiche, sostiene che «la solitudine è associata con una riduzione della durata della vita simile a quella provocata dal fumare 15 sigarette al giorno e superiore a quella associata con l’obesità». Un importante lavoro recente insiste: «Isolamento sociale e salute: l’effetto tossico della solitudine». Queste drastiche indicazioni indicano lo sviluppo avvenuto in questi anni degli studi sulla solitudine e l’effetto che questi (in ambito epidemiologico, biologico e clinico) avrebbero dovuto avere sulla coscienza diffusa di molte persone. Ma l’affermazione soprariportata evidentemente non è stata sufficiente, se recentemente altri autori hanno dovuto ripetere: «La solitudine uccide».

Nell’insieme davvero la solitudine fa vivere la persona in un inferno che ha conseguenze sulla salute, spesso drammatiche, molto più gravi di quanto si ritiene se le si attribuisce solo un peso sul piano psicologico, come è stato fatto fino al recente passato. Le persone sole si curano poco di se stesse, perché sostengono sia inutile qualsiasi tentativo di migliorare la propria condizione; questo atteggiamento può essere la conseguenza di uno stato depressivo conclamato, ma anche legato ad uno stile di vita scostante, chiuso, polarizzato su se stesso, senza desideri e speranze di cambiamento. Nessuno si occuperà di indurre chi è solo a sottomettersi a controlli clinici e dei parametri biologici e il singolo non sentirà alcuna spinta in tal senso. I sintomi che possono comparire vengono inglobati in una visone negativa della vita, per cui i soli non attivano l’attenzione degli altri, né si impegnano ad esaminare gli eventuali segnali negativi con gli strumenti della medicina.

La solitudine è tra le cause più frequenti e incisive di perdita della salute, svolgendo la sua azione in maniera differenziata nelle diverse età e circostanze della vita. È importante conoscere le tappe di questo percorso patologico, per meglio impostare azioni preventive sul singolo e sulla collettività o di riduzione del danno, dedicando attenzione a come mettere in atto meccanismi protettivi. Bisogna peraltro essere con- sci che si tratta sempre di interventi complessi e delicati, perché possano avere efficacia; infatti la profondità dell’azione negativa richiede spesso risposte di lungo termine e di grande difficoltà umana. Il punto centrale consiste nel ricostruire la connessione tra corpo e mente, perché l’azione della solitudine si sviluppa sul confine delicato tra le percezioni somatiche indotte dall’essere soli e gli effetti che queste hanno sul cervello, che, a loro volta, portano a reazioni che si riflettono a livello somatico.

Un ruolo importante rispetto a una presa di coscienza sui danni della solitudine rivestono i dati secondo i quali questa è associata con i meccanismi che portano alla demenza. In particolare è stato dimostrato un legame con un elevato carico di beta-amiloide nel cervello, la sostanza che è il marker più noto di malattia di Alzheimer. Il dato è di estremo interesse, anche se ancora non si conoscono le possibili tappe della correlazione tra solitudine e deposito di beta-amiloide; vi è infatti la possibilità che la solitudine non sia solo una fattore di rischio, ma anche un marker precoce della demenza. In ambedue i casi, però, resta l’importanza di alleviarla, per motivi ovvi, se è un fattore di rischio per la comparsa di demenza, ma per motivi altrettanto seri se invece fosse un segnale precoce, perché il lenimento della solitudine (laddove possibile) eviterebbe l’isolamento dell’ammalato e quindi il rischio di una diminuita attenzione verso di lui da parte del sistema sanitario e della famiglia. D’altra parte, i vissuti di solitudine possono segnalare uno stato prodromico di demenza, quando la persona percepisce la propria inadeguatezza nei rapporti sociali e con la famiglia e tende a chiudersi e ad allontanarsi dagli altri. In questi casi si sottolinea l’importanza che la famiglia e le reti sociali non lascino sola la persona sofferente, ma mettano in atto delicati interventi perché il fenomeno non si aggravi con ulteriori conseguenze sulla salute.

Potrebbe sembrare eccessivo collegare la solitudine con la mortalità; infatti fino alla pubblicazione dei dati più recenti, frutto di studi longitudinali, non era chiaro quanto fosse pervasiva la relazione, anche dopo la correzione per fattori quali l’età, il sesso, il livello di povertà, ecc. Oggi il fenomeno nel suo complesso non è più messo in discussione, ma si studiano in modo analitico le varie condizioni che mediano l’influenza della solitudine sulla durata stessa della vita. Una recente metaanalisi ha concluso che l’effetto della solitudine, dell’isolamento sociale e del vivere da soli induce un aumento della mortalità rispettivamente del 29%, 26% e 32%. I dati rimangono consistenti se corretti per sesso, lunghezza dello studio e regione del mondo. Secondo altri studi, gli anziani con più alti livelli di solitudine sono quasi due volte più esposti alla possibilità di morire prematuramente rispetto a quelli con i livelli più bassi. Il processo si accompagna nel tempo a una riduzione della qualità della vita e dell’autonomia personale, fino alla comparsa di gravi malattie.

Al contrario sono stati presentati studi condotti su molte migliaia di cittadini secondo i quali una forte connessione sociale protegge dalla morte prematura. Ancora una volta si evince che le persone sole non sono necessariamente isolate e che le persone isolate non sono necessariamente sole. Il problema è la percezione della solitudine, che rappresenta il vero fattore di rischio. Altre ricerche hanno dimostrato che la solitudine è legata a un aumento del 29% e del 32% del rischio di sviluppare una malattia coronarica o un ictus, rispettivamente, eventi che incidono sulla durata, oltre che sulla qualità della vita.

I dati sul rapporto solitudine-mortalità sono indiscutibili e dovrebbero convincere ogni persona sull’importanza di intervenire all’interno delle famiglie e delle comunità perché cresca un impegno corale al fine di evitare l’isolamento dei componenti del gruppo. A nulla però servono i dati clinici se non vi è nella coscienza collettiva un sentire condiviso, per cui l’impegno per l’altro è indotto dal sentimento di comune appartenenza a questo universo; i dati biologici e clinici possono rappresentare rinforzi per le scelte di fondo, ma senza un impegno morale e civile non potranno mai cambiare il nostro stile di vita.

Associazione italiana di Psicogeriatria (3 - continua)