Opinioni

Il direttore risponde. Resistere a ogni potere che rincorre la morte, e se ne fa servo

Marco Tarquinio mercoledì 1 marzo 2017

Caro direttore, il clamore e l’emozione che il caso di Fabiano Antoniani sta suscitando sono ben comprensibili. Nessuno può sentirsi indifferente alle questioni umane, etiche e giuridiche che esso fa sorgere. E tuttavia, dall’emozione di un caso estremo così doloroso non è affatto detto che possa derivare una buona legge. Per ora, ne deriva piuttosto un grande polverone politico-mediatico, che mescola assieme cose diverse e agita principi anche inquietanti. Sentivo ieri, durante una trasmissione radiofonica, una sdegnata signora che lamentava l’assenza in Italia di una legge a favore del suicidio assistito con la seguente motivazione: «Come si fa a parlare di difesa della vita nei casi come quello di Fabo? Che razza di vita è?». Mi chiedo: come può lo Stato definire con Legge i casi nei quali la “vita” non è “vita” e dunque può essere soppressa a richiesta? Si può caricare in capo alla Legge il compito di risolvere tutti i misteri della vita delle persone, ivi compreso il mistero terribile della sofferenza e della decisione di “farla finita”? Molti sostengono di sì e i casi eclatanti come quello di Fabo finiscono per essere strumenti di pressione in questa direzione. Si profila uno scenario molto pericoloso: la politica, incapace ormai di garantire i diritti collettivi, rischia di cercare una nuova legittimazione portando alle estreme conseguenze la tutela degli unici diritti che ancora presume di poter coltivare, quelli individualistici. Invece, si dovrebbe dire con chiarezza che esiste un limite alla “potenza” della Legge e che il mistero della vita e della morte costituisce un terreno sul quale essa deve agire con grande cautela e senza alcuna pretesa risolutiva.

Lorenzo Dellai, deputato

Caro direttore, solitamente non sento il bisogno di fare aggiunte all’ottimo lavoro di informazione e di formazione svolto dal nostro giornale sui temi etici. Ma oggi sento il dovere di aggiungere la mia parola di disapprovazione nei confronti della «danza macabra» imbastita da giornalisti e opinionisti attorno a un suicidio assistito. Espressioni come «tradito dall’Italia», «morte libera e dignitosa», «determinazione della propria vita», quando le leggo o le ascolto su giornali tv di solito sensibili alle ingiustizie sociali e alle sofferenze dei migranti, mi creano uno sconcerto a cui non trovo ragionevoli risposte. Non credo che sia in buona fede chi equipara l’eutanasia alle «dichiarazioni anticipate di trattamento», ma, forse, alcuni operatori dell’informazione si esprimono male perché non sanno che cosa è la morte e che cosa può renderla veramente «più leggera». Ho assistito per la prima volta, nel 1963, un giovane morente. Era affetto da paralisi progressiva, come si chiamava allora. I familiari non ressero e restai io, fino alla fine, a tenergli la mano. La dignità si conserva, dicono i «diritti del morente», quando la persona non viene lasciata a morire «sola». Vent’anni dopo cercai di convincere il medico curante ad assicurare l’idratazione di una donna, ormai incosciente, in una casa isolata sulla montagna. Allora non era possibile farlo. L’agonia durò oltre una settimana, ma la famiglia ebbe il sostegno continuo di qualcuno della comunità. Fu degna anche la morte di quell’agricoltore che crollò improvvisamente nel suo campo, in una calda giornata estiva; subito chiamato, unsi con olio quel corpo prezioso di battezzato, dal quale la vita non era ancora del tutto scomparsa. Ho visto pure molti anziani morire come gli antichi patriarchi, dopo aver chiesto se tutta la famiglia era riunita in casa. E se oggi le cure palliative sono disponibili per tutti, come gli ultimi «livelli essenziali di assistenza» sembrano assicurare, la sofferenza del malato può essere sempre resa sopportabile o addirittura annullata. Ancora la «carta della persona morente», che viene consegnata agli operatori sanitari, dice che il malato «ha diritto di aspettarsi di ricevere una cura medica e infermieristica continua, anche se gli obiettivi di cura devono essere modificati in obiettivi di confronto». Se questo programma viene rispettato e attuato sempre meglio nel nostro Paese, con che coraggio qualche parlamentare ha detto in questi giorni di vergognarsi di essere italiano?

don Sandro Lagomarsini

Gentile direttore, per chi ha fede la vita, anche nelle peggiori condizioni, ha il valore supremo del dono divino, che solo Dio può disporre. Per chi non crede anche la vita più invidiabile non ha valore, perché finisce con la morte nel nulla. Se accanto ci fosse stata una Madre Teresa di Calcutta invece di un attivista radicale, forse Fabo sarebbe ancora tra noi. Questo ci interpella e ci fa sentire questa morte come nostra sconfitta. Voglia Dio, per le sofferenze offerte di tanti fratelli colpiti come Fabo, quelle sofferenze che Fabo ha voluto abbandonare, trovare nelle sue misteriose vie il modo di accoglierlo in Paradiso.

Giuseppe Quaglia

Caro direttore, perdere una vita, spegnerla è sempre una sconfitta che tu sia credente o meno. Quanto accaduto lunedì a Dj Fabo ci fa riflettere su questo, e accende anche dibattiti. È oltremodo brutto nonché triste scorrere bacheche di social o ritrovarsi in diversi ambienti e sentire non semplici pareri o sensazioni, bensì incontrare vere e proprie “sentenze”. In questo mare magnum di opinioni, vorrei prendere le distanze dai due estremismi che, ahimè, ho visto nuovamente scontrarsi. Da un lato c’è la fazione relativista, quella della libertà a oltranza, per la quale è “diritto” tutto. Non mi ci soffermo perché questo “pensiero” sta dietro alla gran parte delle cronache e delle opinioni proposte dal circuito mediatico. Dall’altro lato – e, come credente, questa mi interessa e mi preoccupa molto – c’è una fazione fondamentalista cattolica, che si aggrappa a princìpi morali validi, ma che essa stessa violenta e disincarna. E per questa via si finisce per dimenticare l’uomo, e dunque per dimenticare la magistrale lezione di Gesù che ha testimoniato con la vita ed espresso a parole un parametro essenziale che deve sposarsi con la verità che è Lui stesso: «Il Figlio dell’uomo è Signore del sabato». La norma insomma essenziale, vitale, magistra vitae, viene incontro alla persona umana, non la schiaccia, mostra il cammino e promette la libertà. È facile dire che Dj Fabo ha sbagliato e che rispetto alla norma apparentemente ha preferito la morte alla vita. E però coloro che sono così attenti a controllare che i princìpi siano rispettati, con il loro taccuino di precetti in mano, che fanno? Conoscono la sofferenza esperita dalla gran parte dei pazienti che giungono a queste scelte estreme? Mettono in atto delle strategie di accompagnamento per assistere questi fratelli? Sostengono le famiglie spesso sole, creando un alternativa allo Stato ahimè molto assente? Vengono in ospedale, si recano presso le case di questi pazienti? Beh, se non è così, se non siamo pronti a essere anche in questa la «Chiesa-ospedale da campo » di cui parla papa Francesco, meglio stare zitti... Chi sceglie il suicidio (assistito o meno) paradossalmente non lo fa perché disprezza la vita, anzi lo fa forse proprio perché la ama troppo e non riesce più a vedere una promessa di felicità in ciò che gli rimane. Vorrebbe riavere quanto ha perso. Sta a noi, fargli vedere il resto. Sta a noi, metterci in gioco. Se siamo disposti a far questo, parliamo. Altrimenti non abbiamo niente da dire e siamo responsabili di non aver riconosciuto il Maestro in chi grida oggi sulla sua croce.

Luigi Pio Guerrera studente di Medicina prossimo alla laurea

Gentile direttore, ho il serissimo timore che in un futuro prossimo, dietro una pseudo legge sul “fine vita”, in realtà si possa nascondere un omicidio di Stato verso tutti quei cittadini bisognosi di cure ma “troppo costosi” per la collettività. Vi parlo di cose concrete. I malati hanno bisogno soprattutto di tre cose: 1) assistenza sanitaria; 2) assistenza economica; 3) speranza di cura. Senza la piena soddisfazione di uno solo di questi tre punti, l’eutanasia per me sarebbe equiparata a un omicidio di Stato!

Francesco Casaburi

Caro direttore. «Quanto manca alla fine dell’ora?». «Quanto tempo devo lavorare ancora?». «Quando posso finire di soffrire?». Anche le espressioni che usiamo per richiamare i nostri ragazzi sono interessanti: «Quando la finirai di essere così?». «La finisci? Se non la smetti...». Sembra che nel tempo in cui viviamo si sia infilata una grande tentazione: affrettare la fine anziché domandare un nuovo inizio. Domenica sera, dopo la Messa, due bambini giocavano nel cortile della parrocchia. Quando i genitori sono usciti a chiamarli per andare a casa, uno fa all’altro: «Ogni volta che ci vediamo dobbiamo continuare». Il senso del vivere è tutto in quella semplice frase di chi guarda ancora la realtà con occhi semplici. Non siamo fatti per finire, non siamo fatti per terminare, siamo fatti per ricominciare, per rinascere, per continuare. Questo nuovo inizio, però, è impossibile all’uomo che, quindi, può essere tentato di gettare la spugna se una vera speranza non si affaccia nel suo quotidiano. «La Quaresima è un nuovo inizio, una strada che conduce verso una meta sicura: la Pasqua di Risurrezione, la vittoria di Cristo sulla morte. E sempre questo tempo ci rivolge un forte invito alla conversione: il cristiano è chiamato a tornare a Dio “con tutto il cuore” (Gl 2,12), per non accontentarsi di una vita mediocre, ma crescere nell’amicizia con il Signore» (dal messaggio di papa Francesco per la Quaresima 2017). Cristo continua con noi, per questo siamo vivi. Cristo riprende con noi, per questo siamo perdonati. Dio non è preoccupato di finire, ma di continuare. Che la Quaresima ci restituisca il gusto di ricominciare, liberandoci dalla tentazione di aspettare la fine. «Ogni volta che ci vediamo dobbiamo continuare».

don Simone Riva

Gentile direttore, la triste vicenda di Fabiano Antoniani è stata una ulteriore occasione per una stampa che sembra tutta allineata nel sostenere opinioni inaccettabili non solo a chi ha una determinata sensibilità religiosa ma anche a chi semplicemente si ispira a princìpi di rispetto della persona umana e quindi valuta con cautela il problema se sia possibile ritenere una vita più o meno degna di essere vissuta, nella consapevolezza delle aberrazioni alle quali può condurre (e ha condotto in passato) una via del genere, ad esempio sotto il profilo dell’individuazione di chi abbia diritto di decidere per conto di coloro non in grado di esprimere la propria volontà (bambini o minori in genere, handicappati...). Ho letto con sconcerto cronache tutte orientate a favore dell’eutanasia. Addirittura articoli in cui il giornalista per sostenere questa sua posizione, ha ritenuto di esprimere ben tre volte (con parole quasi identiche) il dubbio riguardo il fatto se una vita disabile e/o malata, “questa vita”, si può chiamare tale, con una reiterazione che invero avrebbe meritato la glossa “ripetizione”, magari in matita rossa, anche in un tema di uno scolaro di quinta elementare. Che tristezza, e che preoccupazione…

Paolo Scafi

Caro direttore, voglio ringraziarla per l’attenzione e il rispetto umano che, assieme ai suoi colleghi, ha usato nella vicenda montata e manipolata su Dj Fabo. Premesso che non conosco il “politicamente corretto” e non riesco a comprendere come possa esistere un’infinità di “diritti” nella palude immobile del relativismo, ritengo che il diritto alla vita sia il primo, ma il suo contrario neppure l’ultimo. Bravi giornalisti hanno riferito che un noto personaggio pensa che ognuno abbia il diritto di «decidere della propria vita»: propria? Sarò una mosca bianca, ma io non l’ho acquistata: se l’avessi fatto l’avrei scelta senza difetti! Ci si chiede, inoltre, se la morte per sete sia “dolce” (eutanasia), ma mi sorge il dubbio che la morte non sia materia di barzellette: l’idratazione, come anche l’alimentazione e forse pure la ventilazione, non possono qualificarsi terapie, perché sono elementi essenziali e naturali della vita! Se volete ammazzare qualcuno che non può difendersi, fatelo col sistema più veloce, chiudendogli il respiro, oppure in modo classico, con una coltellata al cuore o una buona dose di cianuro! O la grande sensibilità che vi porta a liberare un disgraziato dalla sua vita “indegna”, ve lo impedisce? Ma torturarlo per lungo tempo, no! Nessun accanimento... Ora mi aspetto che un “vero” magistrato prenda in mano il caso con coraggio e senso di giustizia.

Mario Grosso



Vorrei solo fermarmi in
giorni come questi, quando la morte ci rincorre e viene rincorsa dalle parole di tanti, di troppi tra coloro che hanno, o credono di avere, potere (potere politico, potere mediatico, potere legale, potere religioso, potere di curare o di far morire...). Giorni in cui anche io devo dire la mia, quasi “per obbligo”, e cerco misura e forza per farlo con il giusto e cristiano rispetto per le persone e per la verità. Vorrei fermarmi e qui, almeno, posso farlo. E mi fermo ad ascoltare le voci “dal basso”. Le voci, cioè, di quanti con fiducia e umiltà si spogliano dei loro “poteri” e davanti al colpo di una morte procurata ed esibita come prova di libertà e di dignità, scrivono a un giornale per ferita ricevuta, per puro dolore, per dolente solidarietà, per laica preghiera, per semplice amore. Ascolto e capisco, una volta di più, che se davvero pensassimo di avere potere sulla morte e di morte, allora sarebbe la morte ad aver preso potere su di noi. E non può darsi, non può darsi...