Autonomie regionali/1. Regionalismo differenziato occasione da usare bene
La vicenda del regionalismo differenziato in Italia – rimbalzata prepotentemente all’attenzione dell’opinione pubblica in queste ultime settimane – può essere paragonata a quella di un fiume carsico. Il tema emerge negli anni 90, ai tempi della Commissione bicamerale D’Alema (art. 54.2) ed entra formalmente nella Carta costituzionale con la riforma "federale" del 2001. Da allora l’articolo 116, terzo comma, innesta sul regionalismo italiano – che sin dalla sua origine era asimmetrico, per la coesistenza di 5 regioni speciali accanto alle 14 (poi 15, con la nascita del Molise) Regioni ordinarie – la possibilità per le Regioni ordinarie di ottenere «ulteriori forme e condizioni particolari di autonomia», vale a dire ulteriori competenze rispetto a quelle spettanti in generale alle altre Regioni ordinarie. Ciò sulla base di una intesa con lo Stato, da approvarsi con legge a maggioranza assoluta nelle due Camere.
La necessità di procedere con gradualità e trasparenza segue dalla prima pagina Tuttavia sono trascorsi ormai quasi diciotto anni dalla riforma del 2001 senza che il regionalismo differenziato riuscisse a uscire dalla culla, anche se spesso esso è stato additato come la risposta alle richieste di autonomia di alcune aree del Paese, come il Veneto, ove non da oggi esiste una domanda di riconoscimento di maggiori potestà di autogoverno, che talora si sono confuse – spesso scimmiottando l’ultima moda straniera, dalla Scozia alla Catalogna – con più o meno vaghe aspirazioni secessionistiche.
Quali sono le ragioni dell’emersione alla luce di questo fiume carsico negli ultimi due anni? Le ragioni di questo fenomeno – e della trattativa che l’attuale governo sta conducendo con tre Regioni settentrionali ( Veneto, Lombardia ed Emilia-Romagna), che hanno chiesto di concludere intese e di vedersi riconosciuta una autonomia più ampia – sono complesse e questa complessità deve essere colta senza eccessive semplificazioni antiregionaliste.
È noto che fra le spinte in questo senso vi è, come si ricordava, la richiesta delle giunte regionali a guida leghista di Lombardia e Veneto di fruire dell’autonomia differenziata, talora con l’obiettivo di trattenere sul territorio gran parte del gettito fiscale percepito: il che significherebbe semplicemente far saltare la funzionalità dello Stato italiano. Ed è anche noto che i referendum tenutisi il 22 ottobre 2017 in Lombardia e in Veneto si sono mossi ambiguamente fra questo obiettivo e la richiesta di un negoziato con il governo. Tuttavia le cose non finiscono qui. Va infatti considerato che dalla crisi economica del 2010 il regionalismo italiano è entrato in una fase involutiva, che, in nome dell’esigenza di contenimento della spesa pubblica, ha portato a una lettura in chiave ipercentralistica della Costituzione, svuotando la spinta autonomistica emersa negli anni 90, ai tempi della spinta leghista e delle riforme Bassanini.
Ora, se si guarda al contenuto effettivo che il regionalismo differenziato sta assumendo nel negoziato fra il governo e le giunte di Emilia, Veneto e Lombardia, si vede che ciò che è sul piatto è né più né meno che un rilancio del regionalismo italiano, che mira a chiudere la stagione post-crisi. E non è un caso che questa domanda venga dalle aree più dinamiche del Paese, quelle che compongono il nuovo triangolo industriale (Milano-Bologna-Padova) che ha sostituito negli ultimi decenni quello storico (Milano-Torino-Genova). Sia il Governo attuale, sia quello precedente, infatti, si sono guardati bene dall’appiattirsi sulle richieste regionali e le hanno temperate, alla luce dell’esigenza di preservare l’unità nazionale.
Allo stato, dunque, non vi è alcuna devoluzione fiscale a prescindere (come quella più volte richiesta dal Veneto), né il trasferimento di organici settori dell’amministrazione alle Regioni (ad esempio, scuola o sanità). Vi è invece il tentativo di far gestire a livello regionale alcune aree delle politiche pubbliche in cui le Regioni operano già oggi. E in cui esse ritengono di poter operare con maggiore efficienza a servizio dei loro cittadini: perché a questo, in fondo, serve l’autonomia regionale. Non tutto, ovviamente, è rose e fiori. Se l’approccio liquidatorio rispetto al regionalismo differenziato (stile Vincenzo De Luca, per fare un solo nome) non è giustificato, un’opera di vigilanza si impone.
Per questo motivo, sarebbe opportuno che il risultato dei negoziati fra Governo e Regioni esca dal triangolo fra il Dipartimento affari regionali, i singoli Ministeri di settore e le giunte regionali in cui si compie la sua gestazione e sia sottoposto allo scrutinio dell’opinione pubblica, o almeno della parte di essa capace di comprendere le politiche pubbliche, magari consentendo al Parlamento di iniziarne l’esame ancor prima che esse assumano una veste definitiva. E sarebbe sensata l’opzione per un metodo graduale: evitare intese enormi come quelle oggi in gestazione e frammentare il risultato degli accordi fra Governo e Regioni in intese di settore, una per materia, da sottoporre contestualmente, ma distintamente, all’esame parlamentare. Gradualità e trasparenza sono il miglior modo per far svanire il clima di forte allarme che si è generato attorno al regionalismo differenziato. Ma, soprattutto, occorrerà guardare a questo passaggio come un’occasione per rendere il nostro Stato regionale più adatto a servire le domande della cittadinanza: con le Regioni più efficienti a fare da apripista, nella Repubblica una e indivisibile.