Un meccanismo salva-Stati, una specie di ombrello che dal 2013 – limando quanto basta il Trattato di Lisbona – dovrebbe arginare definitivamente ogni proditorio assalto alla fortezza Europa e all’euro, mettendo i debiti sovrani al sicuro dagli assalti della speculazione internazionale. Si chiude con questa promessa a lungo termine il vertice dei capi di Stato e di governo dell’Unione Europea, per una volta unanimi attorno a un problema serio e urgente come la crisi dei debiti e il rischio – come paventa il direttore del Fondo Monetario Internazionale Strauss-Kahn – di un effetto-domino che dalla Grecia al Portogallo, all’Irlanda, alla Spagna, contamini a una a una le economie meno solide della Ue.A sostegno di questo sforzo concorre anche la Bce, che raddoppierà il proprio capitale sociale portandolo a 10 miliardi di euro. In buona sostanza, a fronte di una minaccia mortale per la sopravvivenza della moneta unica (ma diciamo pure dell’intera Unione Europea), i leader dei Ventisette hanno fatto quadrato, se pure con alcune riserve sulla terapia da adottare e con l’inevitabile accondiscendenza nei confronti della cancelliera Merkel, che mai come in questi tempi si accredita come l’azionista di riferimento dell’Unione, oltre che la custode di un rigore che ha permesso alla Germania di riagguantare livelli di crescita per molti Paesi membri (compresa l’Italia) ancora molto remoti. Non a caso a bocciare la proposta italo-lussemburghese dell’introduzione degli eurobond (obbligazioni europee gestite da un’apposita agenzia del debito a nome di tutti gli Stati membri) è stata ancora una volta la Germania, seguita – ma con minor convinzione – dalla Francia, a conferma di quell’asse franco-tedesco che data dagli anni di Mitterrand e di Helmut Kohl.Non possiamo tuttavia dimenticare un altro decisivo attore in questo teatro dove da tempo si danno battaglia la speculazione internazionale e i singoli debiti sovrani. Stiamo parlando delle agenzie di rating, come Moody’s, come Standard & Poor’s, il cui giudizio sull’affidabilità di questo o di quel titolo, di questo o di quell’istituto di credito hanno il potere – tutto da discutere, invero – di farne oscillare pesantemente i valori di mercato. Agenzie di rating che di ufficiale e di istituzionale non hanno nulla, se non un’ormai storica consuetudine inaugurata negli Stati Uniti dall’epoca di Theodore Roosevelt, ma che – sarà un caso – alla vigilia del vertice hanno tolto il sonno agli spagnoli preannunciando un ulteriore declassamento e a chiusura sempre del medesimo vertice europeo hanno tagliato l’erba sotto i piedi all’Irlanda portandola a un passo dal
junk bond, ovvero dalle obbligazioni-spazzatura e facendo precipitare le Borse e l’euro.Sull’utilità di queste incursioni – veri propri rating a orologeria – mentre si svolgono febbrili conciliaboli per allestire un paracadute per gli Stati a rischio insolvenza si potrebbe discettare a lungo, ma la risposta in fondo la conosciamo già: una società di nazioni – Usa, Cina, Giappone, Europa, India, Brasile – che non riesce a darsi una
governance dell’economia e delle regole comuni, che neppure riesce a evitare che le banche (americane per cominciare, ma a seguire quasi tutte le altre) ricomincino la danza dei derivati e le speculazioni su titoli di nessuna affidabilità, le stesse cioè che portarono alla crisi del 2007-2008, come potrebbe mettersi d’accordo su un corretto utilizzo delle agenzie di rating?Si viaggia cioè in ordine sparso, ciascuno con le munizioni che ha. La ricca Europa dovrà tirare la cinghia, a cominciare dai bilanci futuri, per mettere da parte le riserve necessarie, anche se forse sarebbe stato meglio cominciare da subito ad aumentare il fondo salva-Stati. Ma proprio l’averlo rimandato fa capire che le disponibilità di fatto saranno pressocché senza limiti. La risposta migliore, cioè, agli speculatori di tutto il mondo.