Rating. Sotto esame non c'è solo il debito ma la salute dell'Italia
Gli esami non finiscono mai, è vero. Ma non tutti sono uguali. E quello a cui è attesa l’Italia da parte delle agenzie di rating da stasera alle prossime settimane è un po’ diverso e senz’altro il più delicato degli ultimi anni, anni in cui la straordinarietà pandemica e i tassi bassi hanno reso i giudici meno severi e i mercati più tolleranti. Gli analisti delle agenzie concentrano la propria attenzione sulla solvibilità dei Paesi, cioè sulla capacità di pagare gli interessi di uno Stato, sulla base di complessi metodi di calcolo che a quello si fermano.
Tuttavia, la sobrietà della prima manovra del governo Meloni e il violento inasprimento del quadro macroeconomico – la corsa dei prezzi e dei tassi, le incertezze geopolitiche crescenti a cui si è aggiunta la nuova guerra in Medio Oriente – fanno sì che questa volta dalla pagella sui titoli di Stato e sugli indirizzi politici da cui dipendono, potranno essere tratte indicazioni più generali sull’economia italiana e la sua capacità di reazione a una congiuntura molto più difficile delle previsioni anche recenti. Insomma, questi esami d’autunno possono rappresentare quel check up che non si faceva da tempo, rinviato per forze di causa maggiore o perché, tutto sommato, il sistema Paese sembrava piuttosto in forma. In pochi mesi molto è cambiato. Da una società che mostra continui segnali di sofferenza e scollamento, come ci ricordano i due milioni di famiglie italiane in povertà assoluta denunciati ieri dall’Asvis, alle aspettative sempre più modeste sulla crescita del Pil. Il doppio balzo del 2021 e del 2022 ( rispettivamente 8,3 e 3,7%) sono ormai un lontano ricordo, come dimostra il deteriorarsi delle aspettative delle ultime settimane: per il 2023 il Governo punta a uno 0,8% ormai fuori portata per molti (a partire da Banca d’Italia, che ha corretto allo 0,7%) e le aspettative intorno al punto percentuale per gli anni a venire sono un terno al lotto.
E poi c’è il debito, il problema dei problemi che ormai travalica i confini della finanza pubblica. Tra i conti salatissimi del superbonus e l’ingresso in una stagione di tassi alti, senza correzioni significative il rapporto debito/Pil rischia di salire dal 140,2% attuale al 171% nel 2041 (fonte Ufficio parlamentare di bilancio) e dal 2026, stima questa volta il Mef nel Documento programmatico di bilancio, gli interessi sul debito ci costeranno il 4,6% del Pil, superando la soglia dei 100 miliardi l’anno. Una somma che da sola vale quasi quattro manovre Giorgetti, e che dà la misura di quanto il presente e il passato siano a carico delle generazioni future. Stasera è atteso il primo verdetto, quello di Standard & Poor’s.
L’esame più difficile sarà l’ultimo, e non solo perché cade di venerdì 17 (novembre): a esprimersi sull’affidabilità del debito sovrano sarà Moody’s, l’agenzia che ci vede già nell’ultimo scalino degno di investimento; con una bocciatura può spedirci tra i titoli spazzatura, con conseguenze sui mercati a cui è meglio non pensare. Si può e si deve, invece, pensare a tutte le risorse di cui dispone il Paese, e di cui non potrà fare a meno nella nuova normalità con cui stiamo iniziando a fare i conti.
La grande cautela mostrata da Palazzo Chigi nell’elaborazione della Finanziaria è incoraggiante e al tempo stesso preoccupante, perché certifica spazi (contabili) di manovra pressoché nulli, e che difficilmente potranno allargarsi nei prossimi mesi in cui la guerra in Medio Oriente inizierà a dispiegare i suoi effetti: al prezzo del petrolio, ad esempio, è appesa la metà delle aspettative di crescita per l’Italia del prossimo anno. L’altroieri, all’Esecutivo Abi, il governatore Ignazio Visco ha confessato di « non essersi annoiato» nei suoi 12 anni in Banca d’Italia: a Fabio Panetta, che il primo novembre prenderà il testimone, toccherà probabilmente la stessa sorte. E chissà che nell’asse tra Via Nazionale e Palazzo Chigi non possa prendere forma qualche segnale di quella svolta che i numeri e il contesto rendono necessaria.