Opinioni

Analisi. I rivali di Raisi fanno ancora più paura

Giorgio Ferrari lunedì 20 maggio 2024

Era molte cose insieme, Ebrahim Raisi. Era il delfino della guida suprema Ali Khamenei, era lo sfegatato allievo dell’ayatollah Khomeini, era il giovane giustiziere che alla guida della famigerata “Commissione della Morte” aveva mandato a morire sulla forca trentamila oppositori politici, era il vicepresidente dell’Assemblea degli Illuminati, il sinedrio degli ottantotto esperti cui spetta la nomina della prossima Guida Suprema. E soprattutto era l’esponente più in vista del claustrofobico cerchio magico del potere. Rispetto all’ottantacinquenne Khamenei e alla esausta gerontocrazia iraniana Raisi era un giovanotto. Sessantatré anni, conservatore, ultrareligioso, impermeabile alla modernità, un pilastro della teocrazia inventata dall’ayatollah Khomeini, Raisi era considerato il delfino della Guida Suprema. Se escludiamo Mojitaba, il secondogenito di Khamenei, rivali veri e propri nella corsa al potere assoluto non ne aveva.

Ne aveva molti invece nella folta pattuglia dei Guardiani della Rivoluzione, cupa e sanguinaria espressione della gioventù iraniana (oltre centoventimila adepti), specchio opaco dell’altra gioventù, quella che protesta nelle piazze, quella alle cui donne spezzano le ossa, quella che le manda in carcere per una ciocca di capelli fuori posto, quella che viene bastonata, violentata, scaricata sul marciapiede in nome di una putrida moralità pubblica. Sono loro i veri avversari del regime e sarebbero stati loro, i pasdaran e i guardiani ormai organizzati un una milizia divenuta negli anni un contropotere difficile da contrastare, gli avversari più temibili per Raisi.

«Sono un difensore dei diritti umani e della sicurezza del popolo», sanciva sfrontato Raisi, avvolto nella tunica da chierico, sul capo il nero turbante che attesta la discendenza diretta dal Profeta. Suo padre era un’umile pedina del basso clero sciita che lo Scià aveva messo al bando. Prima ancora di annientare i residui della dinastia Pahlevi, sotto l’occhio benevolo di Khomeini Raisi aveva fatto pulizia dei possibili oppositori interni. Una lunga purga di modello staliniano, destinata a sfrondare i tralci più pericolosi della rivoluzione, i visionari, gli idealisti, i radicali. L’Iran dell’ayatollah che faceva precipitare una nazione giovane e moderna nel medioevo prossimo venturo apprezzava uomini come lui, gli Javert, i Vyšinskij che accompagnano il potere con la frusta implacabile delle loro sentenze.

Perfino Mahmud Ahmadinejad, l’ex sindaco di Teheran poi battagliero presidente della repubblica islamica, il duro che l’America chiamava The Beast, la bestia, al confronto con la felpata e sottile strategia politica di Raisi appare un reperto del passato. Raisi, che respingeva ogni approccio con l’Occidente e soprattutto con il Grande Satana americano, era perfetto per l’oligarchia guardiana che teneva strette le maglie sull’economia e la vita pubblica: l’Iran doveva rimanere un sistema chiuso, in grado di dialogare solo con i propri simili, con le autocrazie, come quella russa e cinese, con i malfidenti wahabiti di Riad, mai con Washington.

Ora si tratta di capire chi lo sostituirà. E anche – ma pare sia questione al momento tenuta sotto traccia – come e perché al confine con l’Azerbaijan sia precipitato proprio il suo di elicottero e non gli altri due che lo seguivano. Nel pozzo dei misteri iraniani c’è posto anche per la muta domanda: cui prodest? La risposta ancora non c’è, perché i beneficiari, anche fuori le mura del fortilizio sciita, sono davvero molti.