Editoriale. Ragioni credibili per fare pace
Non si fa una guerra per un solo uomo. Yahya Sinwar era diventato un simbolo del male, ma Hamas, come entità terroristica e organizzazione politica e sociale più complessa, non era cominciata né, verosimilmente, finirà con lui. La dinamica della sua uccisione non è indifferente, perché dà sostegno a due versioni opposte dell’azione israeliana a Gaza. La “mente” dell’attacco del 7 ottobre 2023 è stato colpito in un piccolo raid, quasi di routine, nella Striscia invasa da un anno, a significare che 12 mesi di missioni mirate non erano servite a scovarlo ma soltanto a seminare morte e distruzione, dicono la gran parte dei palestinesi e tutti coloro che ritengono ingiusta e illecita la rappresaglia di Israele. Al contrario, proprio l’impossibilità di colpire chirurgicamente i capi del movimento che ha messo gli ebrei nel suo mirino sembra giustificare, come dicono il premier Netanyahu, tanti suoi compatrioti e amici d’acciaio di Tel Aviv, una campagna di queste dimensioni e di queste conseguenze (oltre 42mila morti e distruzioni devastanti) per azzerare la minaccia militare che viene da Gaza, altrimenti non scalfibile.
Difficile dire oggi chi abbia ragione. Non perché le vittime abbiano un valore strumentale che varia in base agli esiti del conflitto: dobbiamo sempre aspirare alla difesa di ogni vita e al rispetto del diritto internazionale umanitario. Le stragi di civili, pure quali effetti secondari messi in conto, sono crimini che non si cancellano. E il primo a macchiarsi di orrendi delitti è stato proprio Sinwar che, non va dimenticato, era destinatario di una richiesta di arresto da parte del procuratore della Corte penale internazionale per crimini di guerra. Resta tuttavia l’attuale incertezza sull’evoluzione dello scenario bellico e politico. Israele accelererà su una tregua per ottenere la liberazione degli ostaggi? Non pare che sia così. Se si guarda alle mosse di Tel Aviv, c’è da una parte il timore che per tanti di loro sia troppo tardi. E, dall’altra, il fatto che non si trattava solo di Sinwar. L’obiettivo (ancora lontano) è la disarticolazione totale del potenziale offensivo di Hamas. Qualcosa che sul campo non si può ottenere che in tempi lunghi e con prezzi altissimi. Certo, Netanyahu può ora vantare successi da contrapporre ai fallimenti del 7 ottobre. Ma potrebbe per ora non bastargli. E il quadro internazionale complicatissimo, a ormai meno di 20 giorni dalle presidenziali americane, lascia margini di manovra a tutti gli attori prima di eventi che potrebbero incanalare la crisi verso uno sbocco più definito. In prospettiva, Israele non può fare a meno degli Stati Uniti e degli altri alleati occidentali, mentre oggi è in grado di resistere agli ultimatum della Casa Bianca sugli aiuti umanitari da concedere e di sparare sulla missione Unifil in Libano, sordo alle forti proteste europee.
Il nodo, in un prossimo cessate il fuoco, che arrivi in questi giorni o fra qualche settimana, è che contorni avrà il piano strategico di Israele. Allo stato attuale, non se ne vede uno. Non parliamo dell’ideale soluzione dei due Stati, che è sparita dai radar della regione. Non esiste nemmeno un progetto per la Striscia di Gaza. Sinwar “martire”, come molti già lo chiamano, morto combattendo fino all’ultimo, sarà un triste modello per tanti giovani che hanno immagazzinato risentimento e desiderio di vendetta. Certo, è facile essere dispensatori di saggezza da postazioni sicure: Israele deve difendersi tempestivamente ed efficacemente per garantire sicurezza ai suoi cittadini messi costantemente in pericolo da un’idea di cancellare un intero Paese che gruppi e persino Stati intorno a esso proclamano e perseguono. Tuttavia, le armi non bastano e, spesso, non aiutano a costruire il futuro. Dalla Striscia Sharon aveva ordinato il ritiro e, in seguito, si era permesso che il Qatar finanziasse l’amministrazione Hamas per attività civili. Non una situazione stabile, comunque. Sinwar, descritto come politicamente pragmatico, aveva ripreso ad alzare i toni contro Israele al nascere del nuovo governo Netanyahu due anni fa, composto anche dai partiti anti-arabi che ne hanno orientato in parte le scelte. Che succederà dopo la tregua? Ci sarà occupazione? Tutto dipende anche dagli altri fronti: Libano, Iran. In ogni caso, oggi l’uccisione di Sinwar, pur rilevante per numerosi aspetti, non pare cambiare la traiettoria della scia di violenza che attraversa tragicamente il Medio Oriente. Ciò che può mutarne segno è solo uno sforzo sincero di dare a ciascuna parte una ragione credibile per scommettere sulla pace e la convivenza, rigettando la logica dei Sinwar.