Figli adottati e genitori, la sfida del percorso d'integrazione. Ragazzi sospesi tra due culture. La difficile sintesi dell'identità
«Sono cambogiano, anzi no, sono italiano, come tanti figli adottati in adozione internazionale, ho tratti somatici molto differenti da quelli dei miei genitori. Ho tratti somatici differenti anche da quelli dei miei zii, dei nonni, dei cugini, dei miei compagni di scuola, dei miei amici e conoscenti. Mi sono ormai arreso all’evidenza di vivere sapendo di essere diverso, costantemente diverso, ma sarei diverso anche vivendo in Cambogia, perché ormai non conosco la lingua, le abitudini, le tradizioni, i gesti, ecc. Sono un perfetto italiano in un involucro da cambogiano!».
Così scrive di sé un ragazzino adolescente. E certamente la stragrande maggioranza degli adottati di diversa etnia si rispecchia in queste parole. E poi continua: «Il mio amico filippino, figlio di immigrati, ha un aspetto molto simile a me, tanto che spesso scambiano anche me per un filippino, ma lui ha i genitori che gli assomigliano, in casa mangia dei piatti che ricordano la cucina filippina, i suoi genitori parlano spesso in filippino tra di loro e raccontano storie filippine: la loro casa è come un piccolissimo pezzetto di Filippine trapiantato in Italia. Il mio amico si sente un po’ filippino e un po’ italiano. Io forse non mi sento né italiano, né cambogiano». I bambini che arrivano in adozione hanno vissuto per un tempo più o meno lungo in una cultura completamente diversa di cui hanno respirato l’aria, gli odori, il cibo, i gesti, i suoni, i giochi. Mediamente poco meno di sei anni, secondo i dati statistici forniti dalla Commissione per le adozioni internazionali. Poi tutto ad un tratto sono “catapultati” in una dimensione nuova, costretti a lasciare un ambiente spesso inadeguato ma a loro familiare e affidati a due adulti, i futuri genitori, del tutto estranei che parlano un’altra lingua, hanno gesti ed abitudini del tutto differenti. Certo una volta qui imparano l’italiano ad una velocità sorprendente e modificano altrettanto velocemente le loro abitudini, i modi di comportarsi, di mangiare, di relazionarsi… imparano dunque a mimetizzarsi! Ma poi anche a distanza di anni gli amici, i compagni, la gente per strada continua a mandare messaggi contraddittori: a volte sottolinea il loro essere diversi, a volte li confonde con gli immigrati, altre volte li tratta come se fossero da sempre in Italia, mettendo tra parentesi il loro aspetto fisico e il pezzo di storia che hanno vissuto altrove. Come possono trovare una loro identità, sospesi tra due culture, quella italiana in cui sono ora immersi e quella di nascita, cui costantemente rimandano i loro tratti somatici? È davvero solo un involucro? Il compito non è facile a maggior ragione perché la loro identità etnica rimanda inevitabilmente ad un passato segnato dalla trascuratezza e dall’abbandono, se non anche da esperienze di abuso e maltrattamento. Le ricerche, condotte per lo più nel contesto statunitense, hanno evidenziato come la costruzione di una positiva identità etnica, ovvero di una consapevolezza e dell’orgoglio nell’appartenere ad un specifico gruppo etnico, possa portare ad un maggiore benessere psicologico e sociale. Nel contesto italiano la situazione appare forse un po’ più variegata: una recente ricerca condotta del Centro studi e ricerche sulla Famiglia ha evidenziato che sia coloro che riescono a coniugare questa duplice appartenenza, sia coloro che si assimilano alla cultura italiana, mettendo tra parentesi la cultura di origine, presentano buoni livelli di benessere psicologico e globalmente relazioni soddisfacenti. Ma una lettura più attenta dei dati ha messo chiaramente in luce che solo i ragazzi del primo gruppo, quelli che sono riusciti a costruire una “identità duale”, hanno un buon grado di progettualità verso il futuro e si sentono protagonisti della propria vita, forse perché sono stati in grado, non senza fatica, di trovare quel filo rosso che lega il passato con il presente della loro esistenza. I genitori adottivi si trovano a doversi confrontare con un compito aggiuntivo specifico: se è richiesto loro di trasmettere la cultura propria, quella del contesto in cui vivono, ovvero la cultura italiana, e si trovano a confrontarsi con la cultura del Paese in cui il figlio è nato, decidere se e cosa trasmettere e soprattutto che valore dare a ciò. Le modalità con cui possono svolgere tale compito sono assai diverse e possono oscillare dall’“insistenza sulla differenza”, di chi ostenta costantemente la differenza del figlio e in ultima analisi della famiglia intera, alla “ color blindness” di chi cerca invece di mettere tra parentesi, di sminuirne l’importanza, di sottolineare il fatto che in fondo siamo tutti uguali e che le differenze etniche in fondo non hanno alcuna importanza. E chi ancora demanda al figlio la decisione, assumendo un atteggiamento più passivo e aspettando che sia l’adottato stesso a esprimere esplicitamente il proprio interesse per l’esplorazione delle proprie radici. Certo non è semplice. Ma cosa possono fare i genitori per facilitare nel figlio la costruzione dell’identità etnica? Il soggiorno all’estero quando i genitori si recano per incontrare il figlio, è di tutte l’occasione più favorevole per conoscere quel popolo e quella cultura e possono sfruttare tale periodo (spesso piuttosto lungo) come opportunità per immergersi letteralmente nella cultura del Paese, apprendere usanze, assaggiare cibi, conoscere le tradizioni, i modi di fare, visitare luoghi, lasciarsi affascinare da quella gente per poi poter trasmettere tutto ciò al figlio. In secondo luogo, possono imparare per tempo almeno i rudimenti della lingua madre del figlio: questo è importante soprattutto durante il soggiorno nel Paese di origine e nel primo periodo di convivenza, non solo perché facilita la comunicazione tra genitori e nuovo arrivato, ma anche perché consente ai genitori di mettersi in una posizione veramente di ascolto profondo del figlio ed instaurare propriamente un dia-logo, nel senso etimologico del termine. E il figlio da parte sua non si sentirà “obbligato” a spazzar via con un colpo di spugna, come di fatto nella maggior parte dei casi succede, la propria lingua madre, e sappiamo quale significato simbolico ha la lingua madre per ciascuno di noi! È fuor di dubbio che i bambini adottati debbano imparare l’italiano e generalmente lo fanno a una velocità straordinaria, ma se i genitori conoscono almeno qualche parola della lingua madre, forse non si sentiranno costretti a dimenticarla altrettanto velocemente.