Educare alla speranza. Velo e nudismo: non bisogna criticare, ma chiedere
Tra le dipendenze tipiche degli insegnanti c’è sicuramente il caffè. La macchinetta del caffè in sala prof è meta di diversi pellegrinaggi quotidiani, almeno per me. Ma il caffè può diventare anche una bella occasione di relazione. Nelle ore buche, mi è capitato non di rado di incontrare ex allieve ed ex allievi di fronte a una tazzina. Sono occasioni privilegiate di ascolto e di confronto, che mi danno la possibilità di tornare per un po’ nelle vite di persone accompagnate per un tratto di strada. È sempre bello vedere come gli allievi sono cambiati e cresciuti. È emozionante ritrovare il loro sguardo, riscoprire che molto di quei ragazzi che erano negli anni delle superiori ancora è presente negli adulti che sono diventati, anche se tante cose sono cambiate. Ma, soprattutto, è bello confrontarsi con loro, capire come vedono la vita e il mondo, cosa pensano, in cosa credono. È bello farsi mettere in crisi e, sorprendentemente, scoprire la preziosità di modi di vivere completamente diversi.
In uno di questi caffè ebbi modo di confrontarmi con Fatima, una ragazza musulmana che indossava il velo fin dalle superiori e che aveva scelto di tenerlo anche all’università. Era appena finita l’estate, una delle estati in cui era riemersa la polemica sui burkini che periodicamente viene sollevata. Finimmo a parlare di quello e chiesi a Fatima cosa ne pensasse. «Non capisco davvero tutte quelle discussioni rispose -. Mi pare ovvio che se qualcosa viene imposto è sbagliato, mentre se viene liberamente scelto è un modo di esprimersi. Io, per esempio, al mare indosso il burkini e tengo molto a sceglierne uno che mi piaccia, con uno stile che mi permetta di essere me stessa». Prese il telefono e mi mostrò diversi modelli di burkini. Scoprii che in quel campo la moda era importante e si esprimeva in mille forme diverse. Insomma, il burkini era l’occasione per esprimere la propria personalità.
Da lì, in un battibaleno, la nostra chiacchierata si allargò all’abbigliamento in generale. Io e Fatima ci conoscevamo da anni, per cui mi sentii libero di farle una domanda che non le avevo mai rivolto: «Ma tu perché indossi il velo?». «Fa parte della mia sensibilità, del mio essere donna. È un modo per valorizzarmi - rispose, sicura -. Indosso il velo perché così, se qualcuno mi parla e mi guarda, è portato a concentrarsi sul mio viso e sui miei occhi. E, attraverso i miei occhi, può vedere la mia anima, può capire qualcosa di chi sono davvero». Le sue parole mi sorpresero e mi colpirono positivamente. Quel velo, nel suo caso, era un segno di libertà, di autenticità. Mi resi conto di quanto, su questo argomento, io stesso fossi vittima dei pregiudizi o di argomentazioni di parte sentite e risentite nel dibattito pubblico. Fatima, quel giorno, mi insegnò a cambiare prospettiva.
Lo fece anche Clara, in un’altra occasione. Clara era impegnata in politica, spesso in piazza a manifestare per i diritti e per l’ambiente, informatissima sull’attualità. Incontrai anche lei dopo un’estate, le chiesi dove fosse andata in vacanza. Mi raccontò che era stata al mare in Francia, in un campeggio di naturisti, insieme a un gruppo di amici. Non era la prima volta che andava lì. «Abbiamo vissuto nudi due settimane, in mezzo a persone nude. È stato bellissimo, prof: una vera liberazione». Mi immaginai in quella situazione e provai un forte imbarazzo, certamente condizionato dalla mia storia e dalla mia sensibilità.
Le chiesi: «Perché parli di liberazione?». «Come perché, prof? Perché quando siamo nudi torniamo al nostro stato naturale, ci liberiamo da tutte le convenzioni che ci opprimono. Pensi a tutte le discussioni che si fanno sull’abbigliamento, sullo stile, sul decoro. Quante parole inutili! E pensi a come i corpi vengono spesso mercificati o sessualizzati ovunque, ad esempio nella pubblicità o sui social. In quel campeggio invece siamo tutti nudi e i nostri corpi sono solo nostri, così come sono, senza altre costruzioni. Sono corpi e basta, non oggetti da desiderare o da possedere. Una mano, un piede o un seno sono semplicemente parti di noi, naturalissime. Per questo stare lì mi rilassa completamente».
Il discorso di Clara mi colpì e mi convinse tanto quanto quello di Fatima. Compresi, con stupore, che attraverso scelte per certi versi opposte, quelle due giovani donne avevano a cuore le stesse cose: la dignità della loro persona, la valorizzazione di sé, la libertà nelle relazioni. Fatima e Clara furono per me due ottime insegnanti: mi spiazzarono, mi aprirono prospettive nuove. Credo che proprio questo sia il compito della scuola: far capire che la diversità è una ricchezza, che incontrare qualcuno che vede il mondo diversamente da noi è un dono, perché ci spinge a uscire dai nostri steccati, ad aprire lo sguardo su nuovi orizzonti. E, soprattutto, a scovare la ricchezza dell’altro, invece di criticare ciò che non capiamo.
Mia moglie e mia figlia non girano velate. Io e la mia famiglia non siamo mai stati in un campeggio di naturisti. Ma, grazie a Fatima e Clara, la mia visione del mondo si è arricchita e io stesso ho riscoperto dei valori in cui credo e li ho ritrovati in chi li vive molto diversamente da me. Il filo invisibile che mi lega agli altri si è rinforzato, invece che lacerarsi. Un giorno un amico, che ha idee opposte alle mie su tutto, dopo una lunga discussione mi disse: «Grazie, mi piace confrontarmi con te». All’inizio ne fui stupito. “Perché?” gli chiesi. “Non abbiamo fatto che criticarci reciprocamente!». «Proprio per quello», mi rispose. «Di gente che la pensa esattamente come me ce n’è fin troppa. Invece io e te ci mettiamo in crisi a vicenda. Questo spinge a riflettere e fa crescere».
Ricordo un intervallo in cui mi trovai a chiacchierare con Cloe, una ragazza di quinta superiore che aveva molti piercing e tatuaggi. Anche in quell’occasione dovetti superare i miei pregiudizi: quante volte, da adolescente, avevo sentito dire dagli adulti che i tatuaggi se li facevano i carcerati e che bucarsi la pelle ovunque era una cosa da matti? Quella volta però mi misi in ascolto e diedi a Cloe lo spazio per raccontarsi. Cloe amava la fotografia e l’arte, nel tempo libero non si perdeva una mostra nella sua città, girava sempre con la macchina fotografica a tracolla. Scoprii che per lei piercing e tatuaggi erano proprio quello: una forma d’arte, di espressione di sé, un modo per comunicare chi era; ancora una volta, insomma, una forma alta di libertà. Mi spiegò alcuni dei simboli che si era tatuata sulla pelle: dietro ciascuno c’erano storie, convinzioni, affetti indelebili. Quei piercing e quei disegni erano parte di lei: una parte luminosa. A suo modo, un dono per le persone che incontrava.
Di fronte a ciò che non comprendiamo e che magari ci inquieta o ci spaventa possiamo avere due reazioni: criticare o chiedere. Il primo atteggiamento è quello dell’ideologia, il secondo è quello che si dovrebbe apprendere a scuola. Il primo è l’atteggiamento di chi rinchiude le persone dentro i propri steccati mentali, il secondo è quello di chi ha ben presente che le persone vengono sempre prima delle categorie in cui siamo tentati di confinarle. Possiamo fermarci alle narrazioni imperanti, con le loro generalizzazioni, i loro stereotipi, i loro pregiudizi, o possiamo accettare la sfida di provare a metterci nei panni dell’altro concreto che abbiamo di fronte, senza giustificare tutto, ma senza nemmeno condannare a prescindere. Perché ogni persona è unica e irripetibile e per questo è un universo da scoprire.