La consultazione referendaria cui l’elettorato è chiamato tra un paio di settimane viene politicizzata in modo ossessivo dai promotori dei quesiti abrogazionisti, che puntano a dare a un eventuale successo il significato di un’estensione della sconfitta subita dalle formazioni che compongono la maggioranza di governo nel recente voto amministrativo parziale. In realtà, l’istituto referendario è stato previsto dai padri costituenti come strumento teso a consentire una verifica popolare sulla validità di leggi contestate. Spetta a chi propone i quesiti ottenere una maggioranza di partecipanti al voto, che non viene considerato un dovere civico come lo è invece quando si tratta di eleggere istituzioni rappresentative della volontà popolare. Si tratta di una distinzione importante, che infatti non vale per i referendum confermativi di modifiche costituzionali approvate a maggioranza semplice dalle Camere. Non partecipare al voto, in caso di referendum abrogativo, è una forma di espressione di una volontà politica, quella di preferire che su materie complesse e controverse si cerchi una soluzione parlamentare invece di un verdetto ovviamente semplificatore come quello che nasce da un 'sì' o da un 'no'. Le materie sottoposte al giudizio dell’elettorato, peraltro, alludono a problemi complessi e a nodi istituzionali che hanno una loro corposità oggettiva. Dire di 'no' definitivamente all’ipotesi di una scelta nucleare, che peraltro si potrebbe realizzare in Italia solo dopo che siano stati definiti severi standard di sicurezza a livello continentale, e farlo magari sull’onda emotiva che si è sviluppata nel mondo dopo il disastroso tsunami giapponese, non darebbe comunque una risposta al tema della dipendenza energetica del-l’Italia, che peraltro, a causa di rivolgimenti politici nelle aree di produzione degli idrocarburi, rischia di accentuarsi. Dire di 'sì' e basta rischierebbe di essere compreso come un mandato in bianco a perseguire una politica energetica 'nuclearizzata'. E anche questa non sarebbe una risposta sensata. L’altra questione, quella della gestione pubblica o privata dei servizi (comunque pubblici) e in special modo quelli di distribuzione dell’acqua, allude a due problemi assai gravi. Il primo è la tendenza a fare business su un bene di tutti per definizione, ma anche così prezioso da essere da sempre (e ancor più in futuro) motivo di conflitti e di vere e proprie guerre. Il secondo è la colossale dispersione di risorse idriche, che la gestione pubblica non solo non ha risolto ma spesso ha aggravato, al punto che per un risanamento effettivo del sistema sarebbero necessari stanziamenti colossali, senza i quali, peraltro, l’equa generalizzazione del diritto all’accesso a un bene primario resterà solo formale, quale che sia la scelta sulla gestione degli impianti attuali. Anche l’ultimo quesito, quello sul legittimo impedimento, rimanda a un nodo istituzionale oggettivo, che va al di là delle specifiche vicende giudiziarie dell’attuale premier Silvio Berlusconi. Una volta abolita l’immunità parlamentare, che era stata prevista nella Costituzione del 1948, il delicato rapporto tra poteri – esecutivo, legislativo e giudiziario – è stato spostato e questo può determinare squilibri strutturali. Si può ritenere che l’attuale normativa non garantisca da altre possibili e opposte forzature, ma è fuor di dubbio che una pura e semplice rimozione della normativa oggi vigente (una sorta di mini-scudo per capo del governo e ministri) lascerebbe comunque irrisolto un problema reale. Ci sono ragioni per riflettere sul merito dei quesiti, in modo da decidere se e come partecipare al voto, che non sembra utile cancellare o sommergere con il generico appello a un voto impropriamente caricato di significati politici. Le questioni poste, checché se ne dica, non riguardano il destino di un esecutivo e del suo leader, ma il futuro di un Paese. E bisogna far sì che, nonostante certo frastuono, questo risulti chiaro.