Questa «pace» è un affare. Intesa di Abramo e risiko mediorientale
Gli 'Accordi di Abramo' siglati il 15 settembre a Washington fra Israele, Emirati Arabi e Bahrein sono solo l’ultimissimo tassello della Pax Americana perseguita non senza intoppi e interruzioni da Donald Trump e al tempo stesso un caleidoscopio le cui tante facce assegnano al complicato risiko mediorientale una nuova fisionomia. Come è noto, l’intesa siglata alla Casa Bianca fra i ministri degli Esteri di Bahrein e Abu Dhabi e il premier israeliano Netanyahu certifica l’avvio di relazioni diplomatiche ufficiali fra Gerusalemme e queste nazioni, portando a quattro il novero degli Stati arabi che riconoscono Israele. Il primo fu l’Egitto con la stretta di mano fra Anwar Sadat e Menachem Begin alla presenza di Jimmy Carter a Camp David nel 1978; poi venne la Giordania nel 1994, con l’accordo fra re Hussein e Yitzhak Rabin davanti a Bill Clinton.
Al di là della comprensibile grancassa mediatica che ha accompagnato a Washington come a Gerusalemme lo «storico accordo del secolo» (inutile rammentare che si avvicinano per Trump le elezioni del 3 novembre e che per il premier Netanyahu fiaccato in patria dall’indagine per corruzione e dal ritorno obbligato del lockdown il successo della mediazione americana è certamente un toccasana) è lecito domandarsi: ma è davvero un progresso sulla via della pace? Senza nulla togliere al successo diplomatico, l’accordo appena stipulato non è che una normalizzazione delle relazioni esistenti, in quanto né gli Emirati né il Bahrein erano mai stati in guerra con Israele.
In secondo luogo ci sono due elementi cruciali fonte di potenziale conflitto: la questione palestinese e il problema degli insediamenti israeliani in Cisgiordania. I palestinesi, com’era prevedibile, non hanno accolto con entusiasmo lo spostamento di equilibri e il probabile definitivo naufragio della soluzione dei due Stati, per il quale accusano la Lega Araba di colpevole inerzia e soprattutto di aver tradito la causa dell’Olp, che fin dal 1974 la Lega stessa considerava – a parole per lo meno – la legittima rappresentante del popolo palestinese.
Ora quel popolo, scialuppa fragile e abbandonata in questa tempesta che scuote il Medio Oriente e che spariglia e allontana l’uno dall’altro ben più dotati vascelli arabi, si sente isolato e pugnalato alle spalle nel nome di una Realpolitik ideata e dal genero di Trump, Jared Kushner, e somministrata – questo va detto – con un’accortezza e una pazienza che normalmente non sono le doti principali riconosciute all’ inquilino della Casa Bianca. Come nel domino, all’apertura di credito degli Emirati si aggancia la sospensione del programma di annessione israeliana della Cisgiordania. Sospensione, si badi, non rinuncia: ma era questo il piccolo pegno da pagare perché gli accordi di Abramo potessero essere sottoscritti dai partner arabi. Ai quali, al netto di ritardi e tatticismi, dovrebbero prima o poi aggiungersi anche diversi altri, a cominciare dall’Arabia Saudita e dall’Oman, seguiti dal Sudan e dal Marocco. Sullo sfondo però si staglia il vero motivo di questa ricomposizione di alleanze.
Ed è l’urgente opera di contenimento dell’espansionismo iraniano. Da anni la mezzaluna sciita si era andata estendendo da Teheran al Mediterraneo passando per Baghdad, Deir Ezzor, Palmira, Damasco, Latakia in modo da assicurare all’Iran una fascia di controllo che tagliava in due la vecchia carta geografica del Medio Oriente. Un cuneo nel cuore del mondo sunnita dove si dislocavano ben tre eserciti a disposizione delle ambizioni iraniane: 100mila miliziani in Iraq, 10 mila hezbollah e 50mila fra iracheni e afghani in Siria e altre migliaia con Hamas a Gaza, cui si aggiungevano gli Houti dello Yemen.
Da tempo sia Gerusalemme sia Riad hanno individuato nell’Iran un pericolo mortale e un nemico comune. È un capovolgimento copernicano rispetto all’appeasementdell’amministrazione Obama: l’avvicinamento di Israele alle monarchie del Golfo dà ulteriore impulso al lavorìo per creare una rete sunnita che contenga le ambizioni di Teheran e anche per concludere vantaggiosi affari: l’America ha già promesso una partita di F-35, i caccia invisibili, agli Emirati. E in questo scenario in continuo movimento può perfino accadere – lo diciamo con scaramanzia dopo tante e ripetute delusioni – che ci sia davvero un’occasione concreta e vera di pace. Anche con i palestinesi. Anche con l’Iran. Una pace che realisticamente poggi – come si raccomanda dall’epoca di Talleyrand – sui rapporti di forza. Politici o economici che siano. Ed è su questa strada, vien da dire, che già si cammina.