Questa ferita (in)Giustizia. Sprazzi disgustosi, ragione ed equilibrio
Ormai nell’emozione di molti l’affare Palamara dà il voltastomaco. Le rivelazioni che giungono a sprazzi, il cerchio delle potenziali complicità da appurare, le dimissioni a cascata e le autosospensioni eccellenti, il coinvolgimento sul palcoscenico mediatico di istituzioni come il Consiglio superiore della Magistratura, le Procure, l’Associazione nazionale magistrati, mescolata ad accuse di soldi, viaggi, gioielli, clientelismo, e su tutto quella parola sporca e terribile – corruzione – stampata sulla copertina di un fascicolo penale, sono una pugnalata di disgusto.
Lui dice di essere innocente, immune dal fango, e che lo dimostrerà; e noi ce lo auguriamo con tutte le forze, per noi stessi prima di tutto, perché se un impuro contagio corrode il mondo della giustizia, sono la fiducia e la speranza a morire. E già per prima cosa sarebbe giusto, per noi, non gettare il letame su tutto e su tutti. I magistrati in Italia sono diecimila, e il loro lavoro di giustizia si svolge in prevalente silenzio. Ognuno, sul lavoro, impersona lo Stato in presa diretta; ogni giudice, ogni piccolo giudice che pronuncia una sentenza «in nome del popolo italiano» non ha capi, non ha "superiori" in questa sua funzione, è soggetto solo alla legge, come dice la Costituzione; e alla legge e alla coscienza è fedele. Non possiamo perdere questo baluardo di certezza. E se qualcuno traligna il rimedio è contenuto nel sistema.
Una seconda osservazione è necessaria. Le malefatte di cui è accusato Luca Palamara, e su cui l’indagine farà luce, non riguardano un mercato della giustizia, cioè una giustizia "marcia", ma un fatto per così dire "clientelare" in tema di nomine a incarichi dirigenziali. Brutta cosa anche questo traffico d’influenza, ma grazie al cielo cosa tutta diversa da un alto tradimento, da una simonia. E dunque non è la stessa cosa, non è la stessa angoscia. È diverso se si tratta di lavare le mani unte di affaccendati, rispetto all’immagine tragica di una disinfezione d’un lebbrosario.
Qualcosa peraltro deve cambiare, comunque vada a finire questo processo. Non le regole, le regole ci sono e sono giuste. All’ordine giudiziario è affidata una delle tre funzioni sovrane dello Stato, che per essere svolta chiede autonomia e indipendenza. Non è un è privilegio loro, è una esigenza nostra che essi siano così. Dunque l’organo di autogoverno, il Csm, ci sta. La sua elezione, per due terzi affidata a loro e per un terzo al Parlamento, vede in lizza schieramenti diversi; e in seno all’Associazione (libera) dei magistrati ci sono diverse correnti. È qui che può generarsi il clientelismo; qui la prassi può distorcere le regole, se la riconoscenza dell’eletto agli elettori piega le sue scelte all’interesse della fazione invece che al bene comune. Qui le ambizioncelle di chi aspira a scranni reputati più degni (ah, la carriera...) si incrociano col favore servile dei sodali potenti. In questo ambito possono accadere i giochi: suppliche, promesse, preferenze, conciliaboli. A partire dall’innocuo fino a rischiare l’iniquo. Così, anche quando non toccano il penale, stanno fuori dall’etica professionale.
E adesso? Niente tragedie, ma per favore niente ipocrisie dai vertici, niente silenzi sul lungo panorama del passato: è sbagliato generalizzare le "toghe sporche", perché non è vero; ma qualche purezza etica migliore va recuperata nel cuore, perché il vincolo morale è ancora più forte del vincolo legale. E posta a presidio del solo bene oggettivo, quasi giuramento da "vestali" per chi ricopre quegli incarichi.