La strage di Valle Aurina. Quest'indecifrabile strazio e la nostra ostinata speranza
Nelle loro case in Germania, i genitori probabilmente si sentivano tranquilli. I ragazzi non erano a Parigi, o a New York, o in transito in aeroporti a rischio di attentati. Erano in un tranquillo piccolo paese in Alto Adige: neve, pace, e per tornare dalla discoteca perfino un pullman, che li avrebbe lasciati ad appena cento metri dall'albergo. Erano in tanti poi, una comitiva. Quale pericolo si poteva immaginare?
Avevano salutato al telefono i figli, poche ore prima, senza alcuna ansia. Ma l’inimmaginabile stava prendendo forma in un bar di Chienes, poco lontano, dove un giovane lasciato dalla fidanzata dal pomeriggio aveva cominciato a bere. A bere tanto. Poi, ubriaco, si era messo al volante della sua grossa auto. Voleva andare da lei. Imboccata nella notte la strada semideserta della Valle Aurina accelerava, accecato di rabbia e di alcool. Arrivava in quel momento a Lutago dal paese di Cadipietra il bus dei giovani turisti stranieri, che scendevano e disciplinatamente si accingevano a traversare sulle strisce. Tre minuti prima, e non sarebbe successo niente. Ma proprio in quell'attimo i fari lucenti dell’auto di Stefan Lechner comparivano in fondo alla strada, a velocità elevatissima, e in un istante erano addosso ai ragazzi. In sei morti sul colpo, una settima ieri. Una strage come controllata al cronometro. Non un minuto dopo o prima dell’arrivo del bus è piombata a Lutago, i 200 cavalli ruggenti, l’auto guidata da un ubriaco perso.
C’è chi non crede in niente, e considera un simile evento un tragico caso dentro al caso totale e cieco, in cui nasciamo e viviamo. Sfortuna, jella, dicono. Magari, atei ma superstiziosi, consultano gli oroscopi, cercando di parare i colpi del destino. C’è chi invece ha ancora fede, invece, e davanti a un colpo di falce come quello in Valle Aurina, si interroga. Quei sette, Felicitas che studiava medicina, Julius futuro architetto, e gli altri, non festeggiavano forse come i loro coetanei, nella notte di Capodanno appena trascorsa, non sognavano di innamo-rarsi, di laurearsi, di vivere? E perché queste fiorenti speranze dovevano essere incenerite poche ore dopo? Non sembra forse il tradimento di un Dio molto lontano, perso nelle vertigini dell’universo, l’attimo di silenzio seguito alla strage, sull'asfalto, sotto al cielo stellato?
Anche chi ha fede davanti a una così assurda sciagura può sentirsi tradito da Dio. Succede, a molti genitori orfani di un figlio: il lutto può mescolarsi allo strazio di un altro, altrettanto irrimediabile abbandono - se nessun amico buono viene ad abbracciarti, a scuoterti, a dirti che quel tremendo dubbio non è vero. Ma c’è un’altra posizione possibile, per chi crede in Dio, davanti all’assurdo della morte di un ragazzo o di un bambino. Inizia dall’ammettere di non potere assolutamente capire. Di non potersi dare alcuna ragione di quella perdita, umanamente intollerabile. Eppure si riesce, pure nel dolore estremo, a dirsi che il caso oscuro dei pagani non esiste: solo, come è scritto, i pensieri di Dio non sono i nostri pensieri, le sue vie non sono le nostre vie. Lui è l’Altro, che non possiamo ridurre ai nostri schemi. E tuttavia ogni uomo nasce e muore dentro al suo disegno, misterioso eppure buono. Sembra scandalosa questa parola, davanti allo strazio di padri e madri. È, certo, un accettare, un chinare il capo di fronte al Mistero. Può sembrare una cosa intollerabile, e quasi, in questo tempo in cui ci crediamo padroni di tutto, una resa da deboli. In realtà, nel Padre Nostro diciamo: sia fatta la tua volontà.
Ma ci vuole un grande cuore e un estremo coraggio per affidarsi fino in fondo a Dio – un coraggio, di cui temiamo noi non saremmo capaci. Simile a quello di uno scalatore che in parete, sopra a un abisso, lasci la presa della roccia confidando solo nel compagno che dal di sopra ha assicurato la cima. In questo sguardo si può tentare di sostenere il pensiero di quei ragazzi esanimi sull'asfalto di una strada di montagna, a vent'anni, senza ridursi al cinismo o alla disperazione; senza cambiare canale, per non pensarci. Quei sette figli attesi, amati e simili ai nostri figli, portati via insieme in una notte, sono un indecifrabile mistero. In Cristo, buttando il cuore oltre le nostre capacità, potremmo dire di ciascuno di loro: « In vivis tu», tu sei fra i vivi, come nell'epigrafe di una giovane donna, in una catacomba di Roma. Con la stessa ostinata speranza.