Anche in questa nostra campagna elettorale sembra sia scattata l’ora delle armi di persuasione di massa. Prendete l’uso che si sta facendo, da un mese a questa parte, dei sondaggi. Non c’è forza politica (o quasi) che non si aggrappi ai numeri resi noti dagli istituti di ricerca per convincere gli italiani sulla bontà delle proprie posizioni e sul fatto che siano condivise da un numero crescente di elettori. Da metà dicembre, cioè da quando è stata ufficializzata la fine anticipata della legislatura, fino al 9 febbraio, giorno da cui sarà vietato per legge pubblicare e diffondere rilevazioni demoscopiche di tipo politico-elettorale, la regola d’oro per partiti e candidati sembra essere una soltanto: trasformare il sondaggio in uno strumento per la creazione del consenso. Il processo è semplice: si usano i dati per accreditare un processo politico in corso. Dalla "rimonta" al "sorpasso", dai punti percentuali guadagnati a quelli che, «secondo le cifre a nostra disposizione», renderebbero ininfluente questa o quella alleanza, è tutto un ragionare su scenari futuribili che saranno ovviamente radiosi e ricchi di successo. Così facendo però non si fa un torto soltanto ai cosiddetti "sondaggisti", i primi a sapere che una ricerca ha valore scientifico proprio perché fotografa la situazione in quel dato momento. Non prima e non dopo. Un sondaggio non è una profezia su quel che accadrà (tanto che i casi di errore in materia si sprecano) eppure molti leader politici usano i sondaggi come se fossero profezie che (nei loro auspici) si autoavverano. Perciò si fa un torto innanzitutto all’opinione pubblica, considerata una "massa" da manipolare e convincere. In questo gennaio 2013 sembra di essere tornati all’inverno del 1994, ma almeno allora il pregio della nascente Seconda Repubblica fu quello di semplificare il linguaggio politico, grazie anche all’apporto decisivo della televisione. Oggi la platea della tv o il pubblico dei social network, tanto per citare i due veicoli preferiti dalla propaganda elettorale, meriterebbero un trattamento diverso. Tutto sbagliato e tutto da rifare, dunque? No, qualche segnale positivo c’è. Agli eccessi del marketing politico che si nutre in modo improprio di strumenti scientifici sta facendo da contrappeso un’importante novità: la verifica dei fatti. Gli inglesi lo chiamano
fact checking ed è un meccanismo che prevede il controllo puntuale delle dichiarazioni rilasciate dai candidati. Sono vere o false? Hanno un riscontro in dati appurati (o appurabili) o siamo in presenza di bufale? Nelle moderne democrazie si fa così ed è importante che un passaggio del genere si faccia adesso in modo diffuso anche in Italia. È un servizio ai cittadini, che devono poter scegliere chi li rappresenterà in Parlamento, e insieme alla classe politica, che può veder (ri)legittimato il proprio ruolo dopo gli anni furiosi della "casta". Passare a pieni voti l’esame di un gruppo di studiosi che monitora costantemente le affermazioni dei leader vale nell’immediato molto meno di uno slogan efficace, ma garantisce credibilità e reputazione nel lungo termine. Fosse davvero all’insegna dell’analisi sobria dei fatti e dell’uso corretto dei dati, la campagna elettorale diventerebbe davvero un’occasione di crescita per il Paese, tanto più necessaria dal momento che tutto (incontri, comizi, tavole rotonde, porta a porta) si sta svolgendo a prescindere dal territorio, proprio a causa della pessima legge elettorale con cui voteremo. Ecco perché l’esibizione delle vecchie armi di persuasione di massa è solo un teatrino da respingere in modo netto. Meglio affidarsi all’intelligenza degli elettori, in molti casi più maturi di chi aspira a governarli.