Dateci un’impresa da compiere, purché sia impossibile. Un ostacolo da superare, ma così alto che a vederlo incuta soggezione. Lacrime da spendere, sangue da versare. E alla fine una vittoria su cui nessuno, forse neppure noi stessi, avremmo scommesso. Eccolo qui, il carattere degli italiani, che si rivelano insuperabili nell’emergenza quanto appaiono incerti nell’ordinaria amministrazione.
Si è visto a Varsavia l’altra sera, in una partita di calcio a commento della quale ci si è sbizzarriti – e giustamente – nel gioco delle metafore e contrometafore. Sembrava la rappresentazione plastica dello spread , con un saldo in passivo già segnato a danno degli Azzurri, che invece hanno ribaltato ogni pronostico, liquidando una sconcertata Nazionale tedesca. Che a decidere la serata sia stata la doppietta di un afro-bresciano come Mario Balotelli non è che la conferma – superflua per alcuni, niente affatto scontata per molti altri – di come questa particolare, indefinibile dote rappresenti davvero il meglio e il vero del nostro Paese. È una virtù che, se provi a nominarla, sfugge. Coraggio? Non proprio. Spavalderia? Non solo.Se l’equivoco non fosse sempre in agguato, verrebbe voglia di appellarsi alla Sardegna, la regione da cui tutto, in un certo senso, è cominciato (ricordate la storia di casa Savoia?), per dare cittadinanza universale a un termine più che locale, il corrusco balentìa, dal quale almeno in parte la nostra inafferrabile italianità viene illuminata. È, tra l’altro, la capacità di restare al proprio posto, i piedi piantati a terra contro ogni avversità. Difendere e difendersi, non arrendersi e magari cadere, come quel mingherlino di Dorando Pietri alla maratona di un’altra Olimpiade londinese, anno 1908, ma Dorando era un emiliano, gente che non crolla neanche quando il terremoto prova a buttarla giù e che la corsa la vince lo stesso, non importa se i giudici hanno già decretato la squalifica.
In tutto questo, la sfida di questa sera è probabilmente la più insidiosa perché, se c’è in Europa un altro popolo con la propensione all’inverosimile, è per l’appunto quello dei cugini spagnoli, solo che loro come eroe nazionale hanno il don Chisciotte di Cervantes, uno che tiene fede alle proprie chimere per centinaia di pagine salvo poi ricredersi all’ultimo capitolo, mentre noi ci riconosciamo – chi più, chi meno – in un visionario di tutt’altro tipo, il Dante della Commedia. Lui non farebbe tutta quella fatica se non ne valesse veramente la pena. Non salirebbe fino in cielo, se non fosse convinto che il cielo non è vuoto. Questa forza è, come spesso accade, anche la nostra debolezza.Finché il cimento non si profila all’orizzonte, ce ne restiamo quieti, e indugiamo dove gli altri quotidianamente si applicano. Anche questo fa parte della leggenda: le autostrade che non si riescono a completare, le linee di metropolitana che non entrano mai in funzione, le grandi manifestazioni organizzate sul bilico del ritardo irreversibile. E i disservizi di
routine, certo, i burocratismi di ritorno, il fatalismo che dalle nostre parti ha sempre un sentore di carta bollata e un retrogusto di norma applicativa. Difetti proverbiali, sotto i quali si nasconde la tenacia temibile di una nazione che si esalta all’incombere dell’ineluttabile. E che da domani, archiviato l’impegno degli Europei, potrebbe stupire il mondo se solo trovasse la forza di guardare in faccia una crisi troppo a lungo negata.C’è da soffrire, ormai lo abbiamo capito. Tanto vale cominciare subito. E che nessuno si azzardi a dire che non possiamo farcela.