Opinioni

Tre tornate elettorali sorprendenti. Quelle brecce aperte a Est

Giorgio Ferrari martedì 2 aprile 2019

Una breccia nel muro. Un varco nell’egoismo di Stato di quell’asse sovranista che prende il nome di Gruppo di Visegrád. E soprattutto una plastica dimostrazione di come le idee, la forza delle idee, il riscatto che certe idee recano con sé può fare miracoli, sventrare muri, oltrepassare il recinto autistico dei nazionalismi. Non c’è altro modo di interpretare la vittoria alle elezioni presidenziali slovacche di Zusana Caputová, giovane avvocato e leader di un piccolo partito di intonazione liberale, il cui motto è «umanesimo, solidarietà, trasparenza», l’esatto l’opposto dell’euroscetticismo familistico-omertoso che ha fatto finora da padrone a Bratislava e che si incarna nel partito Smer-Sd (Sociálna Demokracia). Caputová ha vinto con largo margine nonostante il suo diretto avversario fosse il cinquantaduenne Marcos Sefcovic, commissario all’Energia e vicepresidente della Commissione Ue. Il risultato elettorale, di per sé più che incoraggiante, è comunque soltanto una breccia nel vasto muro degli egoismi europei: la Slovacchia non è una Repubblica presidenziale e i poteri della Caputová sono limitati, benché ratifichi i trattati internazionali, nomini i vertici della magistratura e disponga del diritto di veto. Ma il messaggio è arrivato forte e chiaro.

Un messaggio analogo – fatte le debite differenze – ci sembra di scorgerlo in Turchia, dove nella tornata amministrativa che si è svolta domenica scorsa si è vistosamente incrinato quel muro di consenso dietro cui ama rivendicare la propria legittimità come moderno sultano il presidente Recep Tayyp Erdogan: dopo venticinque anni di ininterrotto dominio, l’Akp (il Partito per la giustizia e lo sviluppo dalla forte intonazione islamista) ha perduto la maggioranza nella capitale Ankara, cedendola ai repubblicani del Chp, formazione laica, erede storica del kemalismo guidata dal leader Kiricdaroglu, che trionfa anche a Smirne e ad Antalya, mentre nell’est dell’Anatolia si afferma il partito filo-curdo Hdp. Anche Istanbul è sul filo dei voti. Un’altra breccia nella fortezza turca, principalmente dovuta al ristagno dell’economia (inflazione oltre il 20%, disoccupazione al 12%, crollo della lira turca sui mercati internazionali), ma anche, non scordiamolo, all’insofferenza di una buona fetta della società civile per la repressione delle idee e lo stile autoritario con cui Erdogan esercita il proprio potere.

Non è propriamente una rivoluzione in corso – in Parlamento l’Akp e i nazionalisti suoi alleati hanno la maggioranza –, ma un segnale molto chiaro: nessuna democratura (e quella turca, un confuso connubio fra dittatura morbida e democrazia autoritaria, certamente lo è) è mai del tutto al riparo dalle sorprese di una libera consultazione elettorale.

Ma c’è una terza breccia che la domenica elettorale appena trascorsa ci ha consegnato: quella ucraina, dove a sorpresa al primo turno delle elezioni presidenziali ha vinto l’attore quarantunenne Volodymir Zelensky, un candidato del tutto privo di esperienza politica (come la stessa Caputová), ma forte dell’amicizia con uno dei più potenti oligarchi del Paese e con alle spalle una fortunata serie televisiva nella quale interpretava il ruolo di un candidato presidenziale onesto. Sorvolando sulla facile ironia che induce l’elettorato ucraino a scegliere un simulacro – l’eroe di una fiction di Netflix piuttosto che un alfiere della buona politica in carne e ossa – , anche questa a modo suo è una breccia: i vecchi candidati, il presidente in carica Poroshenko e l’eroina della Rivoluzione arancione del 2004 Yulia Timoshenko sono stati largamente superati dal bisogno di novità. Re del cioccolato e insieme 're tentenna', Poroshenko non è stato capace di gestire al meglio la difficile situazione economica e men che meno lo stallo seguito all’annessione della Crimea da parte della Russia nel 2014 e la conseguente secessione del Donbass. L’irrompere sulla scena di Zelensky, non nascondiamocelo, ha forti intonazioni populane (per non dire populiste) e una certa somiglianza – nei modi e negli slogan – con il movimento fondato da Beppe Grillo. Ma ha anche parole d’ordine di dialogo e ragionevolezza contro il disperante stato di guerra tra Ucraina e Russia. Forse era la breccia che ci voleva per cominciare a uscire dall’impasse.