50 anni fa: Giuseppe Pinelli. Quella dura linea d'odio
12-15 dicembre 1969: dalla strage di piazza Fontana alla morte dell’anarchico Giuseppe Pinelli. Quattro giorni che cambiarono il destino di una parte importante di una generazione. Quel 12 dicembre sentimmo che «il nostro stesso respiro era cambiato», ha scritto su queste colonne Marina Corradi.
Le tante, belle, rievocazioni giornalistiche della strage, nei giorni scorsi, hanno detto già tutto. La «perdita dell’innocenza»; la violenza, da mesi incautamente evocata o minacciata, che irrompe sulla scena come fattore reale del gioco politico; gli imponenti funerali, testimonianza immensa del coraggio e della resistenza civile di una città che non si volle piegare; gli inquinamenti delle indagini e i depistaggi di molti rappresentanti delle istituzioni; l’accertamento giudiziario definitivo del 2005, secondo cui la strage fu realizzata da una cellula di Ordine Nuovo diretta da Franco Freda e Giovanni Ventura che, essendo già stati assolti nel 1987, non si sono più potuti processare (in forza del principio del ne bis in idem).
Ma oggi ricordiamo l’ultima vittima di quella strage: il ferroviere Giuseppe Pinelli, anarchico e pacifista. Talmente "osservato" dall’ufficio politico della Questura da essere diventato «quasi amico» del commissario Luigi Calabresi, al punto che, l’estate precedente, gli aveva regalato il suo libro prediletto: l’Antologia di Spoon River. Convocato in Questura per «uno scambio di vedute» la sera stessa dell’attentato, ci va con il suo vecchio motorino Benelli, seguendo l’auto della polizia con a bordo Calabresi.
Ci sta tre notti e tre giorni senza dormire, passando continuamente da un interrogatorio all’altro; seduto, nelle pause, su una panca di legno, senza un avvocato, senza un provvedimento del magistrato. Con gli uomini dell’ufficio Affari riservati del Viminale che – scriverà il giudice Guido Salvini – indirizzano «in modo esclusivo e preordinato le indagini verso gli anarchici» che risulteranno poi completamente estranei alla strage. Da quella Questura Pinelli uscirà, la sera del 15 dicembre, precipitando dalla finestra della stanza di Calabresi (che peraltro, in quel momento, era in un altro ufficio).
Marcello Guida, questore di Milano che negli anni del fascismo era stato direttore del confino a Ventotene, nell'improvvisata conferenza stampa della notte dirà ai giornalisti che Pinelli si era buttato dalla finestra «con un balzo felino» perché «il suo alibi era crollato» e dunque il suo gesto disperato era stato «una specie di auto-accusa». La sinistra extraparlamentare denuncia subito il «suicidio di Stato»: Pinelli assassinato.
Ma non sono soltanto gli estremisti di sinistra a non credere alla versione ufficiale. Se è vero che, la stessa sera del 15 dicembre, Giorgio Agosti, ex magistrato e nel 1945 primo questore di Torino liberata, scrive sul suo diario: «Un anarchico, interrogato nei locali della Questura di Milano, in un attimo di "distrazione" dei tre agenti che lo sorvegliano si butta dalla finestra e muore. È cominciata la caccia alle streghe e questo ferroviere di 40 anni, con un alibi ineccepibile, ne è la prima vittima. Roba da destituire il questore di Milano. Invece, si deve ora dimostrare che costui si è ammazzato non perché picchiato o terrorizzato, ma perché colpevole. La prova? "Si era sbiancato in volto" di fronte a talune contestazioni. I peggiori sistemi della polizia fascista, incoraggiati dal morboso isterismo dei giornali: si deve trovare non il colpevole, ma "un" colpevole». E l’indomani aggiunge: «L’attentatore di Milano è quasi trovato nella persona di un tal Valpreda, il quale – guarda caso – si è fatto portare a compiere l’attentato in taxi e con lo stesso taxi è ripartito! Per ora non ha ancora confessato, ma tra qualche giorno sapremo che è stato lui e non Bresci a uccidere Umberto I».
Rimane la vedova, Licia Pinelli, figura nobile e altera, che noi ragazzi di allora ricordiamo come l’eroina di una tragedia greca. E le due figlie bambine, che a Natale porteranno sulla tomba del padre il regalo che quel 12 dicembre avevano già preparato: un pacchetto di sigarette.
Rimane – in una fetta importante dell’opinione pubblica – una rancorosa sfiducia verso le istituzioni, che aveva cominciato a serpeggiare con il "tintinnio di sciabole" del 1964, quando il generale dei carabinieri Giovanni De Lorenzo aveva organizzato il Piano Solo: un progetto di colpo di Stato che avrebbe dovuto portare i carabinieri ad occupare le prefetture, la Rai, le sedi dei partiti, e a deportare in Sardegna molti oppositori. Quella sfiducia, dopo il dicembre 1969, divampa. Partendo dalla sua esasperazione, si diffonde, negli ambienti culturali di sinistra, uno stato d’animo sovraeccitato che alimenta analisi sommarie, che dipingono l’Italia come un Paese in cui gli ideali della Resistenza sarebbero stati completamente traditi e dove i tentativi di colpo di Stato sarebbero costantemente in agguato.
È una lettura strabica che, alla fine, renderà difficile guardare con sguardo limpido ai primi sintomi dell’insorgenza del terrorismo rosso. Questo stato d’animo alimenterà la campagna d’odio verso Calabresi, che culminerà, il 17 maggio 1972, con il feroce omicidio del commissario. Adriano Sofri, che per quell’omicidio verrà condannato ma protesterà sempre la sua innocenza, scriverà anni dopo, con una riflessione in cui esemplarmente distingue tra responsabilità penale e responsabilità morale: «Di nessun atto terroristico degli anni 70 mi sento corresponsabile. Dell’omicidio Calabresi sì, per aver detto o scritto, o per aver lasciato che si dicesse e si scrivesse Calabresi sarai suicidato».
Ecco qualcosa dei tempi andati che non rimpiangiamo. Rimpiangiamo la statura degli uomini politici del dopoguerra; il livello delle loro discussioni; la grandezza del respiro riformatore che animò i Governi dei primi anni 60. Ma – anche in tempi di diffuso malcostume e maleducazione politica – non rimpiangiamo il clima d’odio che accompagnò la lunga catena che si dipanò dal dicembre del ’69. Pur essendo consapevoli che in ogni istituzione vi sono inadeguatezze e ogni giorno si commettono errori, non rimpiangiamo la Polizia di quegli anni. Pur sapendo che, sempre, dobbiamo lavorare per migliorare il nostro Stato, non rimpiangiamo l’autoritarismo di allora. Non sarà molto ma è già qualcosa: un buon punto di partenza.