Non siamo per il nulla. Una cabina in Giappone per 'parlare' con chi non c'è più
"Kaze no Denwa", 'Il telefono del vento' si è materializzato in Giappone, nel 2010: una cabina telefonica bianca nel giardino di Itaru Sasaki, che l’ha costruita per continuare a parlare con l’amato cugino, morto prematuramente, e che l’ha messa a disposizione di chiunque chiedesse di usarla, l’anno dopo, per via dei lutti del terremoto e dello tsunami.
Attraverso il vetro della cabina puoi vedere il paesaggio intorno alla collina, fuori la città di Otsuchi, e sentire il rumore del vento e l’odore del mare che sale dall’Oceano Pacifico, mentre parli, o in silenzio componi il numero girando il disco di un apparecchio telefonico nero, accanto al quale c’è carta e penna con cui, se vuoi, lasci anche qualcosa di scritto. Il telefono muto sulla collina è diventato presto una meta di pellegrinaggi, raccontati da un documentario della Tv pubblica giapponese 'Il telefono del vento - sussurri alle famiglie perdute' ha ispirato libri di successo, anche italiani, e quest’anno un film, 'Phone of the wind', diretto da Nobuhiro Suwa.
Anche in Italia c’è una cabina analoga che guarda il mare, nel Rifugio Pratorotondo, in Liguria, e da poco si è fatta 'telefono nel vento' Radio Deejay, che ha raccolto 1.500 messaggi e li ha trasmessi per 4 ore, fra mezzanotte e le quattro del mattino, in una notte di fine gennaio. Tutti anonimi, niente esibizionismi, parole semplici di vita quotidiana rivolte a genitori, nonni, amici, parenti da cui non si aspettano risposte: 'ciao nonna, ho avuto una figlia: si chiama come te, Caterina'; 'babbo, il giardino lo pulisco io tutti i giorni, non ti preoccupare'; 'zia, qui tutto bene, io sto aspettando un bambino, avrei tanta voglia delle tue lasagne, tantissima, con il cotechino'; 'ciao papà, hai visto? Alla fine sono riuscito a sposarmi anch’io'; 'mamma, mi manchi'.
Né sfoghi né lamenti, ma la mesta, tranquilla, rassegnata disperazione di chi è consapevole che l’interpellato non c’è, che non ci sono magìe, che il telefono nero è spento e la segreteria della radio non risponde e neppure ascolta, ma registra; al tempo stesso, però, chi chiama ha bisogno di tirarle fuori, quelle parole, e non ricacciarle più in gola. Perché? Una risposta la suggerisce il sito di Bell-Gardia – il nome del giardino giapponese intorno alla cabina bianca – che spiega: « 'Il Telefono del Vento' è il luogo della 'preghiera', ma non è connesso a nessuna religione».
La parola 'preghiera' è fra virgolette, nel testo, il che ben dice della contraddizione di una domanda senza interlocutore, formulata nella consapevolezza di non rivolgersi a nessuno, lanciata nel nulla, come quell’usare un telefono silenzioso. E niente meglio della cabina bianca, isolata dal mondo, fatta per entrarci e restarci solo una persona alla volta, può essere icona della religione senza Dio dei nostri tempi. Non abbiamo più la speranza profonda che da sempre fa nascere ogni preghiera, la speranza che ci sia un Dio ad ascoltarci. Siamo nel mondo 'dopo Dio', di cui ha parlato per esempio H. Tristam Engelhardt jr. riflettendo sulle conseguenze della rimozione del trascendente dalla nostra vita: un luogo non 'contro' ma 'senza' Dio, dove le persone «si muoveranno con la massima disinvoltura entro i confini del finito e dell’immanente, e che all’interno di questo mondo sapranno trarre dei contenuti per la propria vita dalle esperienze e dalle realizzazioni suscettibili di essere toccate con le mani, odorate con il naso, assaggiate con la lingua, udite con le orecchie, viste con gli occhi e valutate con la ragione dell’immanente ».
Ma non ce la facciamo fino in fondo a pensarci finiti, a trarne tutte le conclusioni coerenti. Non siamo fatti per finire nel nulla. E per questo ci serve anche quel telefono nero, nella cabina bianca, in cima alla collina. Sappiamo che nessuno può risponderci, ma senza ammetterlo neppure a noi stessi stiamo cercando inconsapevolmente in qualche modo di intercettare la voce di Dio.