Musica. Quel rapper sembra straniero ma è il nuovo italiano vero
«Ho la pelle scura / l’accento bresciano / cognome straniero / e comunque italiano…». Il Toto Cutugno di questi anni si chiama Tolulope Olabode Kuti, è nato in Nigeria, a due anni è arrivato in Italia, è cresciuto in un quartiere difficile di Castiglione delle Stiviere e si è laureato a Cambridge grazie ai sacrifici di mamma e papà operai. Alla faccia degli stereotipi, nel brano Afroitaliano Tommy Kuti (il nome d’arte) è passato dal cantare, bambino, nelle comunità evangeliche al rap, con cui intona oggi l’orgoglio di essere un italiano, tutto pizza, tricolore e Cristina D’Avena. Facendo anche arrabbiare Salvini citato l’estate scorsa in un suo brano a favore dello ius soli. Questo ragazzone scoperto da Fabri Fibra, col suo primo album dal titolo Italiano vero appena pubblicato da Universal (in cui canta le bellezze e le contraddizioni del nostro Paese) è uno dei primi a rappresentare nella scena hip hop tricolore le nuove generazioni di italiani con genitori immigrati o di origini straniere. Che ora hanno deciso di far sentire la propria voce attraverso il genere più amato dai giovanissimi, ottenendo un successo crescente sulla rete e nelle classifiche di vendita.
Da quando la Fimi, lo scorso luglio, ha incominciato a calcolare l’ascolto in streaming, la classifica degli album è stata invasa da dischi di musica rap, con Fabri Fibra, Gué Pequeno e Sfera Ebbasta in testa. E con l’entrata a sorpresa, nel 2017, di un fenomeno come l’italotunisino Ghali e del lanciatissimo Laïoung, italiano con la Sierra Leone nel sangue. Nonostante in Italia certe esasperazioni del dibattito politico soffino sul fuoco del razzismo e della paura, i tempi sembrano maturi per questi nuovi cantautori, che arrivano anche a citare De André o Pino Daniele. Lo ius culturae passa più attraverso le cuffie dello smartphone che per le aule parlamentari. La formula? Rime inanellate in un fluente italiano su uno stile che mescolta il rap americano, la melodia italiana e suggestioni africane.
E che racconta storie personali, spesso difficili, per smontare i pregiudizi e far conoscere la realtà in cui sono calati tanti figli di migranti. I testi dei rapper sono forti, non sempre condivisibili a causa dei contenuti, di ripetute volgarità e per i comportamenti cui a volte invitano, ma non è questo il punto. Se davvero vogliamo capire cosa “bolle in pentola” nella comunità multietnica italiana, dobbiamo ascoltare le emozioni, i desideri e le richieste che i giovani esprimono con le canzoni. E una novità importante c’è. La tendenza più interessante è che alcuni artisti di origine straniera non puntano sull’odio, come ci ha abituati il rap d’oltreoceano, bensì sull’amore per il Paese dove sono cresciuti, invocando, con toni esasperati o con dolcezza, di esserne accolti. Basta ascoltare il tormentone Cara Italia , 50 milioni di visualizzazioni per il video, che imperversa anche grazie a uno spot. Il brano è firmato da Ghali, star assoluta del trap (una variante del rap) italiano.
«Quando mi dicono a casa / rispondo sono già qua / io tvb cara Italia / sei la mia dolce metà», canta citando anche Gaber con quel mix originale di suoni elettronici e modulazioni nordafricane che rappresentano il ponte artistico con cui si è affermato Ghali Amdouni, classe 1993. Nato e cresciuto a Baggio, periferia di Milano, da una famiglia tunisina, un’infanzia difficile con un padre a lungo in prigione che poi scompare dalla sua vita e una madre adorata che lo ha sostenuto indirizzandolo sulla retta via. Alto, elegante e riservato, si ispira a Stromae e Michael Jackson: racconta se stesso, le sofferenze sue e di tanti nuovi italiani che non hanno voce con sincerità disarmante e stile. Vende più di tante star e ha saputo fare impresa, creando la propria casa di produzione con uno staff multietnico. Il suo primo album dal titolo Album, pubblicato l’anno scorso, è certificato disco di platino con oltre 50.000 copie, quinto disco più venduto del 2017. Curatissimi i videoclip, capaci come, quello del singolo Habibi, di giungere a quota 59milioni di visualizzazioni. I suoi concerti sono sempre affollatissimi da un pubblico senza distinzioni di colore o nazionalità: «Siamo una generazione importante per il cambiamento», afferma. Si tratta di artisti che sono la punta di un iceberg di nuove realtà produttive musicali in cui sono impegnati musicisti, tecnici e produttori italiani di seconda generazione che collaborano da anni con la scena artistica nostrana.
L’integrazione non è più una parola astratta, quando è fatta di lavoro in comune e passione per l’arte. Poi certo, ci sono anche gli affari, specie con i concerti live. L’Italia, dati Assomusica, è al sesto posto al mondo, tra i più grandi mercati per la musica dal vivo con ricavi nel 2017 quantificati in circa 605 milioni di euro con una netta previsione di crescita per il futuro.
Sebbene il settore sia dominato dal pop/rock, il rap si sta facendo rapidamente strada, ed è il genere dove gli italiani di seconda generazione stanno avanzando a passi da gigante. Una svolta culturale nata dal basso e accolta con naturalezza dal pubblico dei giovanissimi. Cui si rivolgono i nuovi rapper italiani di seconda generazione, affrontando di petto temi quali il razzismo, l’integrazione e la realtà politica italiana. Arrivano dalla periferia, dalla gavetta, dai piccoli studi di registrazione e, soprattutto, viaggiano sul web.
La loro forza è stare (per ora) lontani dal glamour del rap modaiolo e televisivo, quello alla Fedez per intenderci. Anche se l’industria musicale ha fiutato l’affare, ed ora sta reclutando gli artisti più popolari del mondo indipendente. Come ha fatto la Sony con Laïoung, alias Giuseppe Bockarie Consoli, un altro rapper consacrato nel 2017 dall’album “politico” Ave Cesare/ Vedi Vidi Vici: figlio di padre italiano e madre londinese di origine sierraleonese, cresciuto fra Ostuni, Palermo, il Belgio, la Francia, il Canada. Un 'nomade' come si definisce il rapper e produttore discografico 26enne che picchia duro raccontando la povertà e la rabbia delle periferie, il senso di esclusione, salvo addolcirsi nella melodica La nuova Italia , in cui rivendica: «Il futuro siamo noi». La nuova Italia è anche Michael Mudimbi, rapper e cantautore di San Benedetto del Tronto, madre italiana e padre ghanese, proveniente dal panorama trap, un artista politicamente scorretto dai testi spesso troppo pesanti. Arruolato dalla Warner tra le Nuove Proposte al Festival di Sanremo. invece ha sfoderato Il mago, divertente inno all’ottimismo a partire da una vita di difficoltà.
A emergere da un panorama sempre più ricco di fermenti multiculturali è anche Amir Issaa, 32 anni, rapper italiano di padre egiziano, cresciuto a Roma, produttore musicale e oggi autore del libro Vivo per questo , in cui racconta di aver vissuto la stessa diffidenza che vivono oggi i figli dei migranti «che sono già italiani – dice – perché la legge può o non può riconoscere lo ius soli ma è solo una questione di tempo. La realtà è questa. Basta entrare in una scuola: chi cresce qua e ama questo Paese è italiano». A tutti costoro Amir dedica brani come Ius Music o La mia pelle, per invitare a non avere più paura e non sentirsi più «uno straniero nella tua nazione». Insomma, il 2018 potrebbe essere l’anno dell’esplosione di una nuova generazione musicale vitale e pienamente italiana, capace di rendere la nostra musica davvero internazionale in termini artistici. E pronta a rivendicare, a suon di rime, i propri diritti. Ben lo sintetizza Tommy Kuti nel brano Afroitaliano: «Sono troppo africano per essere solo italiano e troppo italiano per essere solo africano. Afroitaliano, perché il mondo è cambiato».