Opinioni

Joele, 19 anni, ucciso a botte da altri giovani nel Kent. Quel figlio nostro massacrato icona di crisi e nuova emigrazione

Francesco Riccardi giovedì 24 ottobre 2013
La scomparsa di Joele, 19 anni, ucciso a calci e pugni nell’appartamento sopra il ristorante italiano nel Kent inglese in cui lavorava da pochi giorni come cameriere, non è solo un fatto tragico in sé, com’è sempre la morte, e ancor più una morte violenta per mano di altri ragazzi, più o meno coetanei. È la morte di un figlio nostro. Perché come tanti dei nostri figli, Joele era in Gran Bretagna per trovarsi un primo lavoro e insieme perfezionare quella lingua considerata fondamentale per svolgere poi qualsiasi altra professione. Se guardiamo nelle nostre famiglie quanti Joele troviamo... Con quel sorriso buffo, l’amore per il rap e le scuole superiori appena finite, a volte con ottimi voti, più spesso con una sufficienza risicata. E quelle discussioni, uguali in tutte le case: «Allora, hai deciso a che facoltà ti iscrivi?». «Non penserai di stare qui a non far nulla, tutto il giorno sdraiato sul divano... vai, vai a lavorare, così impari cosa vuol dire veramente la fatica, la responsabilità...». E poi quella luce negli occhi di questi adolescenti alla vigilia della partenza, alla vigilia della vita. Padroni del mondo e sicuri di sé fuori, fragili come cristallo dentro, proiettati lontano dal bozzolo familiare nella loro prima prova da adulti, questo sì vero esame di maturità.  
È anche la morte di un figlio d’Italia, di quella porzione del Paese che evidentemente non trova occasioni d’impiego qui, nonostante non manchino né i bar né i ristoranti. Solo che da noi non solo non s’impara l’inglese, ma essere assunti in regola (come invece accade in Gran Bretagna) è quasi sempre una chimera: troppo costoso e troppo complicato. E infatti le cucine e le sale dei nostri ristoranti sono spesso il territorio, sovente rigidamente diviso per clan, di cinesi, slavi, egiziani, romeni, africani... Tante, troppe volte il regno del «nero», tra sfruttamento e buste paga più o meno truccate. E così, nel nostro Paese i ragazzi che non si accontentano di ciondolare tra la casa e il bar, preferiscono piuttosto tentare l’avventura di un’esperienza all’estero, sia essa di alto livello professionale o anche solo un 'lavoretto' per mantenersi appena.
Sono i figli dell’Italia che non s’arrende, non subito almeno, a una carriera da Neet , da giovane che «non studia né lavora né è in formazione», che è la 'professione' oggi più diffusa tra gli under 29. Ma quella di Joele è anche la morte di un figlio della crisi e assieme l’icona di una globalizzazione interpretata al ribasso. Nella quale noi italiani ci ritroviamo di nuovo emigranti come 50 o 70 anni fa, a competere però con altri emigranti ancora più affamati di lavoro di noi. Perché se i nostri giovani cercano anzitutto una chance, un primo trampolino – che un tetto e una cena a casa loro difficilmente manca – per altri, siano essi asiatici, del maghreb o dell’Est europeo, si tratta quasi sempre di pura sopravvivenza. Della differenza tra il mangiare e il digiunare, tra il poter spedire qualche soldo alla famiglia e il lasciare madri e figli al proprio Paese senza risorse.
Colpisce la violenza brutale di chi ha ucciso Joele a calci e pugni, sfondando una porta, in un raid punitivo premeditato. Quel grido «italiani di m., rubate il lavoro» ci colpisce come uno schiaffo sul volto, ancora orgoglioso, di grande potenza industriale. Ma quel che ci strazia davvero il cuore – al di là di ogni considerazione economica e sociale, anche se dalle indagini risultassero altri moventi per il delitto – è sapere massacrato un figlio nostro. E con lui uccise l’innocenza e le speranze di tanti ragazzi.​