Falcone, Borsellino, Puglisi. Non epopee ma buona, quotidiana dedizione. Quei tre: ricordi in prosa
Del terzo, padre Puglisi, so qualcosa di più per la consuetudine tra le mura del liceo. Era puntuale e sempre sorridente. Non aveva grandi doti oratorie, ma la forza semplice e convincente di chi pronuncia parole vissute. Aveva di che disperarsi e rattristarsi, ma sorrideva sempre. Non si trattava di un ottimismo leggero perché poco compromesso con la realtà, ma del sorriso di chi non ignora i problemi e li affronta giorno per giorno nella celebrazione della Messa, a cui mi è capitato di assistere. Da lì traeva la sua forza quotidiana. Anche lui era un lavoratore indefesso. Lavorava con pazienza e costanza, convinto che quel poco avrebbe dato frutto anche in un quartiere come Brancaccio, nel quale portava i ragazzi del liceo a fare volontariato nel centro "Padre Nostro", dove faceva studiare e giocare bambini e ragazzi per «restituire la dovuta dignità a chi ne era stato privato», perché diceva che «la Chiesa può essere edificata solo pregando e studiando, celebrando e discutendo, amando e lavorando». Nel suo appartamento, dopo l’assassinio, trovarono più di 3.500 volumi e un poster che amava mettere in evidenza: un grande orologio senza lancette e la scritta «Per Cristo a tempo pieno».Cercò di rievangelizzare un quartiere ad alto tasso mafioso. Come? Ripulì la parrocchia, sia fisicamente sia liberandola da presenze ingombranti, come politici che se ne servivano per interessi personali, in cambio di favori o elemosine. Si alleò con i laici cristiani che volevano dare un volto nuovo a Brancaccio: «Dobbiamo cercare di presentare da innamorati la figura di Cristo, ciascuno di noi dovrà fare da mediatore, dovremmo fare innamorare gli altri di Cristo, ma logicamente occorre che già siamo carichi di questo innamoramento». E così li incoraggiava a farsi carico delle loro responsabilità di cittadini che hanno diritti e doveri, senza aspettare che fosse «il prete» a risolvere i problemi. Ma era il primo a dare il buon esempio: la mattina del suo omicidio era andato a chiedere l’ennesimo permesso – sistematicamente ignorato – al Comune per la costruzione di una scuola media. Il giorno in cui lo uccisero aveva celebrato due matrimoni, aveva preparato alcuni genitori al battesimo dei bambini e aveva incontrato degli sposi che desideravano parlargli, oltre ad aver fatto un po’ di festa con alcuni amici, essendo il suo compleanno.Insomma, era un prete che faceva il prete, come Falcone e Borsellino erano ottimi magistrati.Erano persone che non accettavano compromessi e vie facili. Sudavano e trasformavano il loro lavoro quotidiano in riscatto personale e sociale. Se non vogliamo trasformare le commemorazioni di questi mesi in retorica vuota dobbiamo cominciare da lì. Imitare questi uomini è imitare la loro vita ordinaria, il loro lavoro ben fatto, preparato, anche quando è noioso, la cura dei dettagli, il rifiuto della raccomandazione, della chiacchiera maligna contro gli altri, della lamentela inutile. A noi è chiesto di pagare il biglietto, di non copiare i compiti, non comprare lauree, chiedere lo scontrino, conoscere e collaborare con i vicini... Per ricordare questi uomini dobbiamo smetterla di sistemarli su piedistalli che li pongono tanto in alto da renderli irraggiungibili, ma dobbiamo farli scendere per le strade, le nostre, prestando loro mani, piedi, schiene, volti. Non c’è commemorazione se non diventa quotidiana azione. Fedeltà nel poco.