Opinioni

Falcone, Borsellino, Puglisi. Non epopee ma buona, quotidiana dedizione. Quei tre: ricordi in prosa

Alessandro D'Avenia giovedì 24 maggio 2012
Falcone, Borsellino, Puglisi. Per ragioni diverse la mia adolescenza è stata segnata da questi tre uomini e ne vorrei dare un ritratto diverso dal solito. Forse il mio ritratto sarà un po’ prosaico, ma credo che una loro collocazione nella poesia epica nel renderli uomini straordinari, faccia sia a loro sia a noi un cattivo servizio. Preferisco la poesia della loro prosa quotidiana. ​Conoscevo il primo (Falcone) solo perché casa sua era davanti allo studio di mio padre e quell’albero sul quale sbocciavano biglietti più che foglie lo guardavo tutti i giorni, e a volte non potevo fare a meno di fermarmi a leggere i messaggi che lo abbellivano, come frutti di una primavera di propositi nuovi.Conoscevo il secondo (Borsellino) perché abitava vicino casa mia e frequentavamo la stessa parrocchia la domenica. Puntuale era lì, tutte le domeniche alla Messa del mattino. Il terzo (Padre Pino) lo conoscevo un po’ meglio, perché era il professore di religione di alcune sezioni del mio liceo classico, il Vittorio Emanuele II.Del primo non ho mai visto la vita quotidiana, ma quello che so è che era un grande lavoratore che capì che si poteva incastrare la mafia con una strategia nuova: seguire in modo paziente i movimenti incancellabili dell’economia mafiosa. Insieme ai colleghi del pool antimafia inventò un nuovo modo di fare indagini e giudicare i mafiosi. Giovanni Falcone è uno che ha lottato contro la mafia facendo bene il suo lavoro, ed era un lavoro spesso noioso, ma fatto bene, fino in fondo e senza tregua. Dove non c’erano strumenti li creò con la sua competenza e con i colleghi.Del secondo ho assistito alla quotidianità del rito domenicale, seguito con puntualità, insieme alla famiglia, che era la priorità di Paolo Borsellino. È saltato in aria a causa delle sue troppo "prevedibili" visite domenicali alla madre, che abitava in via D’Amelio. Anche lui lavoratore indefesso, quanto fumatore.Entrambi si confinarono all’Asinara a redarre gli atti per il Maxi Processo e tirarono fuori migliaia di pagine, lavorando giorno e notte, e costringendo le famiglie a scomodità e continue preoccupazioni. Insomma erano persone che lavoravano sodo e bene. Si complicavano la vita non per un eroismo straordinario, ma per l’amore al loro lavoro, alla loro città e alla giustizia. Un amore fatto di fatica, sudore, silenzio, solitudine, vittorie, sconfitte, sacrifici personali e familiari, ma nel quotidiano.Borsellino una volta disse: «Palermo non mi piaceva, per questo ho imparato ad amarla. Perché il vero amore consiste nell’amare ciò che non ci piace per poterlo cambiare». Sono parole che può dire un uomo che sa cosa è un amore non sentimentale, e conosce la ruvidezza dell’amore che trasforma, anche a costo di dolore, chi ne è coinvolto, giorno per giorno.

 

Del terzo, padre Puglisi, so qualcosa di più per la consuetudine tra le mura del liceo. Era puntuale e sempre sorridente. Non aveva grandi doti oratorie, ma la forza semplice e convincente di chi pronuncia parole vissute. Aveva di che disperarsi e rattristarsi, ma sorrideva sempre. Non si trattava di un ottimismo leggero perché poco compromesso con la realtà, ma del sorriso di chi non ignora i problemi e li affronta giorno per giorno nella celebrazione della Messa, a cui mi è capitato di assistere. Da lì traeva la sua forza quotidiana. Anche lui era un lavoratore indefesso. Lavorava con pazienza e costanza, convinto che quel poco avrebbe dato frutto anche in un quartiere come Brancaccio, nel quale portava i ragazzi del liceo a fare volontariato nel centro "Padre Nostro", dove faceva studiare e giocare bambini e ragazzi per «restituire la dovuta dignità a chi ne era stato privato», perché diceva che «la Chiesa può essere edificata solo pregando e studiando, celebrando e discutendo, amando e lavorando». Nel suo appartamento, dopo l’assassinio, trovarono più di 3.500 volumi e un poster che amava mettere in evidenza: un grande orologio senza lancette e la scritta «Per Cristo a tempo pieno».Cercò di rievangelizzare un quartiere ad alto tasso mafioso. Come? Ripulì la parrocchia, sia fisicamente sia liberandola da presenze ingombranti, come politici che se ne servivano per interessi personali, in cambio di favori o elemosine. Si alleò con i laici cristiani che volevano dare un volto nuovo a Brancaccio: «Dobbiamo cercare di presentare da innamorati la figura di Cristo, ciascuno di noi dovrà fare da mediatore, dovremmo fare innamorare gli altri di Cristo, ma logicamente occorre che già siamo carichi di questo innamoramento». E così li incoraggiava a farsi carico delle loro responsabilità di cittadini che hanno diritti e doveri, senza aspettare che fosse «il prete» a risolvere i problemi. Ma era il primo a dare il buon esempio: la mattina del suo omicidio era andato a chiedere l’ennesimo permesso – sistematicamente ignorato – al Comune per la costruzione di una scuola media. Il giorno in cui lo uccisero aveva celebrato due matrimoni, aveva preparato alcuni genitori al battesimo dei bambini e aveva incontrato degli sposi che desideravano parlargli, oltre ad aver fatto un po’ di festa con alcuni amici, essendo il suo compleanno.Insomma, era un prete che faceva il prete, come Falcone e Borsellino erano ottimi magistrati.Erano persone che non accettavano compromessi e vie facili. Sudavano e trasformavano il loro lavoro quotidiano in riscatto personale e sociale. Se non vogliamo trasformare le commemorazioni di questi mesi in retorica vuota dobbiamo cominciare da lì. Imitare questi uomini è imitare la loro vita ordinaria, il loro lavoro ben fatto, preparato, anche quando è noioso, la cura dei dettagli, il rifiuto della raccomandazione, della chiacchiera maligna contro gli altri, della lamentela inutile. A noi è chiesto di pagare il biglietto, di non copiare i compiti, non comprare lauree, chiedere lo scontrino, conoscere e collaborare con i vicini... Per ricordare questi uomini dobbiamo smetterla di sistemarli su piedistalli che li pongono tanto in alto da renderli irraggiungibili, ma dobbiamo farli scendere per le strade, le nostre, prestando loro mani, piedi, schiene, volti. Non c’è commemorazione se non diventa quotidiana azione. Fedeltà nel poco.