Caro direttore, vorrei riprendere alla provocazione lanciata dall’economista Leonardo Becchetti in un editoriale di 'Avvenire' del 12 marzo 2016, che lei ha titolato «Pregiudizio e realtà» (
LEGGI) e accompagnato con l’occhiello «Migranti e noi: ciò che si dice e ciò che è». Dopo aver presentato in buon ordine i dati di carattere demografico, economico, fiscale, assistenziale, pensionistico, che smentiscono decisamente la rappresentazione propagandistica e mediatica di un’«invasione» che ci toglierebbe sicurezza, benessere e pace, Becchetti afferma che c’è bisogno, oltre ai freddi dati, che hanno poca circolazione nei discorsi da bar, di contronarrazioni e di iniziative che possano contrastare il fenomeno della paura che si autoalimenta, a prescindere dalla realtà. In questo, afferma che «la nostra cultura del fare il bene ma non dirlo, non aiuta affatto. Non si tratta di vantare quello che si fa, quanto di affrontare una missione culturale». Bene, provo a raccontare un’esperienza vissuta dalla mia famiglia dal 1984 al 1990, prima della 'emergenza' degli ultimi anni. Abitavamo a Milano, in Via Tadino, nella parrocchia di San Gregorio Magno. Mia moglie Bona venne a sapere dalla Caritas che due studenti iraniani di architettura, dotati di permesso di soggiorno, ma senza soldi, erano stati sfrattati dal collegio universitario e dormivano sulle panchine. Nei giorni precedenti avevamo acquistato, con mutuo, pensando al futuro di un figlio impegnato nel servizio civile, due stanze vicine al nostro appartamento 'di ringhiera'. Ci mettemmo un paio di giorni per decidere di arredare alla meglio una stanza e di accoglierli in casa, con ingresso separato e con bagno esterno. La domenica li invitavamo a pranzo e Bona metteva a disposizione la lavatrice. Per il resto, guadagnavano qualche lira, cucendo qualche tappeto e anche cercando di vendere cartoline in corso Buenos Aires. In due o tre anni si laurearono entrambi. Il maggiore riuscì a far giungere a Milano un fratello diciottenne, dato che il clima instaurato da Khomeini era ostile nei confronti di questi giovani, di religione zoroastriana, che avevano sostenuto lo scià di Persia Reza Palhavi. Questo altro giovane si iscrisse a medicina. In sei anni imparò l’italiano e si laureò con lode. Noi, collaborando con il Centro Migranti di padre Zonta di Brescia, riuscimmo a prestargli i soldi necessari per iscriversi alla specializzazione in chirurgia plastica e ricostruttiva. Ora dirige un reparto ospedaliero a Londra e ci ha restituito quei soldi. Il fratello maggiore è rientrato a Teheran, dove è diventato prorettore di una Università. Il terzo vende tappeti a Seregno. Una loro sorella ha sposato un ingegnere italiano e ha due figli. Noi pensavamo che se un’agenzia avesse potuto fare da mediatrice fra anziani soli, con camere vuote, e giovani immigrati bisognosi di un tetto, si sarebbero risolti molti problemi. Conservo quei pensieri da trent’anni. Perché non riprovarci, ora che siamo in emergenza?
* Emerito di Pedagogia generale nell’Università di Roma Tre