Quei segni che infine fanno umili anche i re. E le ombre di Elisabetta
Gentile direttore,
sic transit gloria mundi era il monito delle antiche incoronazioni papali. Credo che anche la regina Elisabetta II ne fosse, soprattutto per la sua fede cristiana, ben consapevole. Almeno è quanto ho dedotto dal sermone, privo di enfasi, dell’arcivescovo anglicano di Canterbury nell’abbazia di Westminster. Alla fine del rito funebre i simboli della regalità (corona, globo, scettro) sono stati tolti dal feretro e deposti sull’altare; un gesto, a mio avviso, denso di significati. Non meno conscio, anche per sofferta, personale esperienza, di limiti e caducità del potere, e della responsabilità che comporta davanti a Dio, era l’ultimo, esule, re d’Italia Umberto II che, citando san Paolo, si consegnava, nelle sue estreme volontà, al giudizio del Signore, non al proprio né a quello di un tribunale di uomini. E altrettanto espressivo è il rituale che ancora oggi accompagna la sepoltura dei principi, non più regnanti, della Casa d’Austria, i quali non accedono, da morti, nella Cripta dei cappuccini di Vienna, se non dopo che si è fatto silenzio sui loro titoli, e dichiarato che a chiedere di entrare è semplicemente un «povero peccatore». Sono segni che, se posti a suggello di un servizio al proprio popolo e alle istituzioni svolto con dignità ed esemplarità (come nel caso della regina Elisabetta), impediscono, a mio parere, di ritenere le monarchie desuete o di ridurle a materia di gossip.
Caro direttore,
mi spiace e un po’ mi amareggia, nel panegirico generale, che non si sia pubblicata (sinora) su “Avvenire“ anche una mia lettera di forte critica per la corale “beatificazione” massmediatica della regina Elisabetta. Cosa che ho trovato assai indigesta. La defunta monarca è stata senz’altro una figura politica monumentale dei nostri tempi, ma le non poche ombre che hanno solcato i suoi 70 anni di regno vanno ben oltre gli scandali di corte e le vicende familiari... Soltanto uno sguardo del tutto acritico può tacere sugli innumerevoli episodi in cui Elisabetta II è stata il simbolo di un sistema colonia-lista, ingiusto e guerrafondaio. Basti pensare a quando si è opposta con decisione ai moti di indipendenza dei Paesi del Commonwealth, a quando ha negato la grazia a tre giovani rivoluzionari ciprioti rifiutando loro il perdono che li avrebbe salvati dalla condanna a morte e al ruolo avuto nel dramma che ha insanguinato per decenni l’Irlanda del Nord, con migliaia di civili uccisi o feriti dall’esercito britannico. A cominciare dal caso più noto, la “Bloody Sunday” di Derry del 30 gennaio 1972: 14 civili innocenti uccisi a sangue freddo dai parà inglesi durante una marcia per i diritti civili. Dalla bocca di Elisabetta II non è mai uscita una parola di scuse per i drammi causati dalla politica britannica in varie parti del mondo, dall’Irlanda a Cipro, dal Kenya allo Yemen... Continuerò a essere fedele abbonato e lettore, naturalmente.
Abbiamo detto la nostra su Elisabetta di Windsor, seconda del suo nome sul trono d’Inghilterra, e io ho detto anche la mia, da repubblicano convinto seppur rispettoso dei sistemi, delle tradizioni, delle convinzioni e dei sentimenti altrui. Oggi pubblico quelle che vorrei fossero le ultime due lettere sul tema (ma se ne arriveranno ancora di belle, cambierò avviso: solo i morti e gli stupidi – recita un vecchio adagio – non cambiano mai idea). Ringrazio il lettore Goffi per la sua suggestiva rievocazione- valorizzazione di figure e tradizioni monarchiche che infine ci parlano di umiltà. E ringrazio il lettore Marconato per la sua severa memoria “fuori dal coro” della «monumentale » figura e della lunga parabola elisabettiana, che ha attraversato almeno tre diverse fasi della storia britannica e dell’umanità. La sua severità ha solide ragioni, eppure io sono tra quanti continuano a pensare che le luci siano state più forti delle ombre. E che ora è il momento del parce sepulto anche per la Regina che ha saputo rinunciare a essere solamente Lilibet.