Il lavoro che si lascia e a cui si rinuncia. Sì, quei giovani fan di conto
Avranno anche ottenuto risultati sconfortanti ai test Pisa e Invalsi, ma qualche calcolo i giovani italiani lo sanno ancora fare. Anche a occhio, senza dati precisi. Sanno valutare una proposta di lavoro da 800 o 1.000 euro al mese per quaranta ore a settimana. E capire che, se proprio non hanno urgente bisogno di soldi, non ne vale la pena. Gli ingegneri, gli esperti di analisi dei dati e quelli di rendicontazione e controllo che il governo voleva arruolare nel Meridione con il Concorso Sud per i progetti legati al Pnrr invece i calcoli li sanno fare bene. Si sono accorti subito che i 1.300-1.500 euro netti al mese proposti dallo Stato bastano appena a pagare l’affitto di una casa in periferia in una città del Nord, saldare le bollette, fare la spesa e riempire il serbatoio della macchina. Non una prospettiva irrinunciabile.
In Germania un ingegnere a inizio carriera difficilmente guadagna meno di 3mila euro al mese e il costo della vita non è molto diverso da quello del Veneto o della Lombardia (Milano esclusa).
Multinazionali americane del digitale cercano data analyst in tutto il mondo con offerte da 40-50mila dollari all’anno: il lavoro è da remoto, se ci si adatta al fuso orario si possono analizzare tabelle e flussi di dati anche da Catania, Lecce, Salerno. E sentirsi, se non ricchi, almeno membri della vecchia 'classe media'. Ci sono tanti fattori dietro il fenomeno occidentale della Great Resignation (dimissioni di massa) e della disaffezione generale dei giovani verso il lavoro: inevitabili cambiamenti culturali e generazionali, riflessioni sul proprio ruolo nel mondo maturate nei mesi in lockdown, domande di senso a cui un modello economico produttivo-consumista non poteva sperare di dare risposta.
Nella sua versione italiana, però, la carenza di manodopera e di lavoratori qualificati ha dietro un fattore fortissimo, semplice e materiale: i soldi. Il denaro che le aziende e lo Stato sono disposti a dare alle persone in cambio del loro impegno e delle loro capacità è spesso troppo poco davanti ai costi di una vita 'normale': non basta per procurarsi una casa dignitosa, comprarsi una macchina, magari sposarsi e fare un figlio o due e poi andare tutti un paio di settimane al mare ogni estate.
Negli ultimi trent’anni quella vita da 'classe media', accessibile alla maggioranza degli italiani fino agli anni Novanta, è diventata sempre più irraggiungibile, un pezzo alla volta: prima il lavoro stabile, poi le case, quindi i figli. Tutto è diventato più complicato e costoso. Esclusivo, in senso letterale. Chi c’era dentro, chi aveva stipendi e contratti 'vecchi', chi aveva comprato casa in tempo, chi aveva fatto figli quando proliferare non era un lusso ha continuato a cavarsela.
Chi doveva ancora entrare nella sua vita 'adulta' si sarebbe invece accorto presto che la normalità conosciuta da bambino rischiava di essere troppo costosa. L’Italia aveva bisogno di riprendersi dalla sbornia degli anni Ottanta: tagliare le spese e alzare le tasse, ridurre il debito pubblico, comprimere i costi per ritrovare la produttività perduta. È servita una 'svalutazione interna' (gli stipendi medi italiani sono scesi del 4% dal 2000 a oggi, in nessun altro Paese dell’Ocse è successo qualcosa del genere) e si è scelto di metterla quasi per intero a carico di chi ancora non era entrato nel mondo del lavoro.
Gli italiani nati dagli anni Settanta in avanti, come ha scritto la Fondazione Bruno Visentini in uno studio di qualche anno fa, sono cresciuti «in una società costruita e gestita a misura delle generazioni precedenti, che preclude ai giovani anche la visione, la speranza, l’aspettativa di un benessere futuro». La svalutazione forse è un po’ sfuggita di mano: è da quindici anni, dicono le indagini sui bilanci delle famiglie condotte dalla Banca d’Italia, che il reddito medio di chi ha più di 65 anni (cioè i pensionati) è superiore anche a quello dei 41-55enni, gente che dovrebbe essere nella piena maturità lavorativa.
Non si guadagna più come un tempo e non si sa se quei redditi torneranno mai. Con simili mediocri prospettive di guadagno, le generazioni dei nati negli anni Novanta e Duemila hanno comprensibilmente poca voglia di mettersi a fare lavori sgradevoli, incapaci di dare soddisfazioni economiche o almeno esistenziali. Piuttosto contengono le spese (cioè restano a casa con i genitori) e si arrangiano con quel che c’è, magari qualche occupazione creativa pagata poco, ma divertente.
Consapevoli che nell’Italia in cui si trovano a vivere – quella delle cedolari secche, dei superbonus per rifare le villette e dei valori catastali inviolabili – ricchezza e benessere quasi sempre si ereditano, raramente si creano e si guadagnano. Questa è tutto meno che una strada di futuro. Vogliamo davvero andare avanti così?