La vera posta in gioco. Nascere e morire, quei due diritti che diritti non sono
Diritto di nascere, diritto di morire: una parte dell’opinione pubblica riassume in questo duplice slogan due eventi quasi simultanei, pur diversi fra loro, ma emotivamente e culturalmente molto legati. Uno è la vicenda dell’uomo che ha chiesto e di fatto ottenuto, fuori d’Italia, un suicidio assistito che in patria non avrebbe potuto avere, almeno legalmente. L’altro è la vicenda di due uomini, uniti in una coppia omosessuale, che hanno ottenuto, anche loro fuori d’Italia, di essere registrati legalmente come i soli genitori di due bambini, e proprio in questi giorni ne hanno ottenuto la trascrizione da una Corte italiana. Il legame fra i due eventi sarebbe l’affermazione della volontà individuale sulle frontiere estreme della vita e della morte; e di una libertà rivendicata a dispetto dei pregiudizi e dei divieti radicati in una visione antistorica e ottusa della persona umana e del suo destino.
Ma è proprio così? È fuorviante l’espressione «diritto di nascere» usata per indicare quello che è, semmai, il (rivendicato) diritto di «far nascere» un nuovo essere umano con le tecniche della procreazione assistita: dal concepimento in vitro alla gestazione nell’utero di una donna diversa da quella che ha fornito l’ovulo. Al di là di ogni questione sulla liceità di queste pratiche e sulle loro conseguenze giuridiche, certamente non è corretto presentare questa tematica sotto la denominazione del «diritto di nascere». Il diritto di nascere non ha niente a che fare con il diritto (vero o presunto) di procreare; invece è quello che appartiene all’essere umano concepito. O meglio, gli appartiene se glielo riconosciamo: il che a quanto pare non è scontato, perché proprio da quelle cattedre che proclamano il diritto dell’aspirante genitore di utilizzare tutte le tecniche procreative disponibili viene anche la proclamazione del diritto o, a certe condizioni, il dovere della gestante di abortire. E questa è la negazione del «diritto di nascere».
La formula «diritto di morire» non è altrettanto mendace. Ma presenta comunque profili di ambiguità perché, almeno nella mente di alcuni dei sostenitori, sottintende che esista anche un (preteso) «diritto di far morire», che si può a sua volta declinare in diversi gradi. Il primo grado sarebbe il diritto (anzi, il diritto-dovere) di «far morire» una persona che ha questa volontà e la esprime, ma non è in grado di metterla in atto da sola. Il secondo grado sarebbe il «far morire» una persona che la sua volontà l’ha espressa in un passato più o meno remoto e non è ora in grado né di confermarla né di smentirla. Il terzo grado consiste nell’equiparare alla volontà espressa una volontà «presunta» in base a elementi quali lo stile di vita e le convinzioni in qualche modo manifestate in passato e 'ricostruite' (caso Englaro).
Il quarto grado consiste nel decidere, puramente e semplicemente al posto dell’interessato incosciente, che quella vita (altrui) non è, o non è più, o non sarà, «degna di essere vissuta». Insomma: chi parla di «diritto di morire» dovrebbe anche dire con estrema chiarezza fino a qual punto vuole giungere. Ma esistono davvero tutti questi diritti? Rispondere, per il giurista, è problematico, perché si deve stabilire, prima, a quale ordinamento giuridico ci si vuol riferire, e non vi è più solo l’ordinamento nazionale le cui leggi, buone o cattive che siano, conosciamo abbastanza bene. Napoleone, promulgando il suo codice all’alba del secolo XIX, aveva detto che la sola fonte del diritto era la legge nazionale (quel codice, appunto) e che al giudice spettava essere soltanto «la bouche de la loi», la voce della legge.
Ma dopo le tragedie del secolo XX si è affermata l’idea che esistono diritti individuali fondamentali che sovrastano qualunque legge nazionale, e si sono create corti sovranazionali deputate a farli rispettare; in Europa ne abbiamo addirittura due, la Corte di Strasburgo che applica la Convenzione di Roma del 1950 e la Corte di Lussemburgo che applica la Carta di Nizza del 2000. Accanto al diritto sovranazionale vi è poi quello che si può chiamare diritto transnazionale, che è entrato in campo, fra l’altro, nella vicenda decisa dalla Corte d’Appello di Trento. Così avviene, inevitabilmente, che su questi temi così importanti le sentenze dei giudici scavalcano le leggi nazionali e ne travolgono i confini. È bene esserne consapevoli mentre nel Parlamento italiano si preparano discussioni che – per quanto sperabilmente serie – rischiano di risultare ormai fuori contesto.