Milano stenta a riconoscersi, e freme. Coronavirus, quanto pesano le mani in mano
Ai caselli, all’alba, non si accalcano le colonne di auto con i fari accesi, ansiose di ripartire verso il centro non appena si alza la sbarra. Sulle scale della metro, alle otto del mattino a Cadorna o a Centrale, non scende di corsa la folla di pendolari e studenti che travolge chi è nuovo della città, e non sa da che parte andare. Ai banchi dei bar del centro, poco prima delle nove, manca la ressa per il caffè: manca la raffica dei colpi dei filtri della macchina, svuotati dalle mani svelte dei baristi.
È triste la metropoli con le scuole sbarrate e i tram che passano vuoti. Il silenzio amplifica quell’eco scura di acciaio, che è la voce dei tram di Milano. Al mattino si affaccia un sole pallido, poi il cielo diventa grigio. Attorno a piazza Duomo poca gente. E nessuna comitiva di turisti stranieri che si attardi a traversare col semaforo già rosso, nessun tramviere che li mandi a quel paese ruggendo, ma in realtà bonariamente. È come trasfigurata, questa nostra città, questa abitualmente trafficata, frenetica, insopportabile Milano, di cui tante volte ci lamentiamo. Non è più lei: sembra malata. Nemmeno ai giorni di Chernobyl, nella paura delle radiazioni, era così desolata.
Eppure, eppure qualcosa cova ai tavolini dei bar riaperti alla sera, e nelle parole a casa, a cena. Malinconia, sì, come di chi si guardi allo specchio, e non si riconosca. Ma, ancora timida e però già percepibile, cresce una voglia di ripartire. Perché si comincia a capire che questa malattia non è la peste, perché si legge che la grande maggioranza dei contagiati guarisce, perché si sospetta che media e web abbiano amplificato l’allarme in psicosi.
Qualcosa allora, nei milanesi ma anche in quanti da Milano sono stati adottati, comincia a riscuotersi. Una concretezza, un realismo lombardo che dopo qualche anno contagia anche chi viene da fuori. Ora la cameriera di un caffè al Sempione comincia a sorridere del suo stesso panico di questi giorni, e il tassista dello 024040 lascia la mascherina sul cruscotto: «Sa – confida alla cliente – non la mette più nessuno, non vorrei sembrare un pirla».
Il farmacista sotto casa riprende fiato, dopo giorni bollenti: «La gente si è calmata». «Speriamo che lunedì riaprano le scuole», si sente dire alla cassa del supermercato, dove nessuno più saccheggia gli scaffali. E in tanti, a casa dall’ufficio, sazi di serie tv, sotto sotto fremono. Perché Milano non è proprio capace, di stare con le mani in mano. La consegna urgente, il capo che tempesta di telefonate, il parcheggio introvabile, i mezzi colmi delle ore di punta: ci ripetiamo tanto che non sopportiamo tutto questo. Ma, scopriamo ora in questa mesta calma, quanto questo nostro ritmo incalzante, perfino affannoso, ci manca.
Ci mancano le decine di migliaia di studenti fuori sede che affollano le nostre Università, e le loro giovani facce che, all’inizio di settembre, chiedono un po’ smarrite dove si scende, per la Statale o per la Cattolica; ma imparano in fretta, e presto alle otto del mattino corrono giù veloci come gli altri per le scale della metro. Ci mancano anche i turisti giapponesi che sciamano in Monte Napoleone estasiati, e i crocchi di impiegati che ridono nei caffè, all’' happy hour'.
Quante volte, nella calca, nel rumore, ci siamo detti: insopportabile, Milano. Quanto la rivorremmo, ora – come quando una persona stressante, ma cara, ci manca. Corre sul web un video ideato da un’agenzia di marketing e rilanciata dal sindaco Beppe Sala intitolato «Milano non si ferma». Mostra gru d’acciaio che girano nei cantieri, e i binari della metro lucenti nel buio dei tunnel, le sfilate della moda. e i nuovi grattacieli. Immagini che paiono un desiderio: torniamo come eravamo, come in realtà siamo. Sì, torniamo Milano. E non solo in ciò che si vede, ma in ciò che è nascosto e generoso. Negli ospedali cui affluiscono pazienti da tutta Italia, nella carità verso gli ultimi, e, speriamo presto, nelle nostre chiese.
Nelle cento messe feriali del primo mattino da cui piccoli drappelli di cristiani, ricevuta l’Eucarestia, partono per il lavoro - in mezzo agli altri con quell’invisibile dono. Nei negozi vuoti oggi c’è chi lucida la vetrina, fisicamente incapace di stare senza far niente. Nei mercati gli ambulanti si fanno coraggio a vicenda: «Passerà, vedrai». Alla Bullona, zona di movida, un gran fragore di trapano e martello da un locale nuovo, che promette sulla porta: 'Opening soon', apriamo presto. Ti scopri a guardare con gratitudine gli operai che si gridano ordini, in un intreccio di accenti italiani e stranieri: come fossero un’essenza di Milano. Riapriamo presto anche noi, e con noi l’intero Paese, ti dici. E, dalle facce che incontri per la strada, ti pare d’essere dentro una corale muta preghiera.