Opinioni

L'analisi. Fine vita e sofferenza. Perché si ritiene “accettabile” l'aiuto al suicidio?

Francesco Botturi giovedì 18 gennaio 2024

La sofferenza come esperienza umana è insidiata da una lettura solo tecnica

Il bene comune, come criterio di unità e di promozione del tutto sociale, legittima provvedimenti a favore della soppressione consenziente della vita? Di che cosa vive una società che accetta di gestire la morte? Il libero consenso ha maggior valore della conservazione della vita? Se il potere di scelta (autodeterminazione) si propone come potere di legittimazione, il contenuto della scelta diventa indifferente, perché il valore è tutto dalla parte della decisione, e perciò potenzialmente qualunque contenuto di scelta è legittimo.

Che cosa ne è di tutto ciò nell’esperienza del patimento (dolore e sofferenza)? La libertà si fa giusta alleata di tutto ciò che li possono ridurre o eliminare, perché – va notato – anche la più libertaria delle libertà alla fine non è del tutto indifferente al positivo o negativo dell’esperienza... Tuttavia, una libertà tutta concentrata in sé stessa è anche in balìa di sé stessa, delle sue debolezze, delle sue illusioni, ma anche dei suoi incubi. Oggi dovrebbe stupirci l’impressionante povertà culturale e simbolica circa il senso del patire. Non più cristiani e non ancora nuovi veri pagani, ricchi di nuove mitologie, noi uomini di oggi viviamo il patimento come una condizione fatale, anonima, solitaria, insensata e ragionevole solo come oggetto di manipolazione tecnica.

l dibattito su possibili soluzioni normative per la morte assistita rilancia la domanda sul rapporto della nostra società con la malattia e il dolore: esperienza umana o problema tecnico da risolvere nel modo più efficiente?

In ogni sofferenza, invece, è contenuto il riverbero dell’universale esperienza del soffrire: questo mio dolore pone una questione di senso che è comune ai dolori di oggi, di sempre, di tutti. Questo è, infatti, lo specifico del soffrire umano: il suo essere in relazione con la totalità dell’esistenza, che nel suo insieme è messa a prova dalla sofferenza. Ogni patimento introduce a questa esperienza cruciale e pone l’interrogativo sul suo senso, la sua giustizia, la sua accettabilità.

Il predominio della mentalità tecnologica, invece, suggerisce di trasformare ogni situazione in “null’altro che” un problema da risolvere. Nell’età contemporanea la tecnica è divenuta la modalità prevalente con cui la realtà in generale è compresa e affrontata. La tecnica si costituisce oggi come l’orizzonte di senso entro cui si assegnano i significati alle cose. Di conseguenza anche la sofferenza tende a essere interpretata in termini tecnici, come fosse anche lei solo un problema oggettivo da risolvere, piuttosto che un interrogativo a cui rispondere.

Il primato di tale mentalità scientifica comporta l’idea che tra bisogno e sapere tecnico-scientifico ci sia un’essenziale adeguatezza. Che cosa sia bisogno, quali siano le sue dimensioni umane e quali ne siano i valori e i disvalori ci si aspetta che siano la scienza e la tecnica a deciderlo. Non si tratta, evidentemente, di misconoscere i benefici del progresso tecnico-scientifico ma di porre la questione della capacità di tenere in conto il tutto umano che è coinvolto nel problema della malattia, del dolore e della sofferenza, essendo incombente il pericolo di ritenere significativo del malato e del sofferente solo ciò che è scientificamente e tecnicamente oggettivabile in modo separato dalla totalità umana cui appartengono.

È in tal modo che la sofferenza cessa di essere “esperienza” riconosciuta e riconoscibile. Come il morire, anche la sofferenza è tenuta in disparte, affidata al privato individuale, povero di parole significative; oppure è spettacolarizzata, in ogni caso comunque dissolta come domanda di senso. «La coscienza inclina a divenire muto “stato d’animo”» (Giuseppe Angelini) nei confronti della stessa propria esperienza, non legittimata dalla cultura ufficiale a esprimersi nel grido, nel timore, nella domanda inevitabile: perché?; ma anche nella speranza, nella certezza, nell’impegno di una volontà partecipe e solidale. Tutto lo spazio (anche interiore) sembra occupato dalla competenza, dal suo potere e dall’apparato burocratico connesso. In questa diffusa privatizzazione del patimento (come di tutte le esperienze elementari dell’esistenza: nascita, crescita, amore, morte) la stessa lettura religiosa del fenomeno rischia di restare solo un’integrazione consolatoria di un sistema di pensiero pubblico che sottrae in tutti i modi al patire la sua inviolabile dignità.

Tutto ciò, però, ha l’effetto diffuso di acuire l’insofferenza per la sofferenza, che resta come un rumore di fondo di qualcosa che non dovrebbe esserci eppure esiste e insiste, e quindi genera ansia e angoscia. E, a sua volta, l’insofferenza diventa facilmente risentimento, spesso inconsapevole ma profondo, come si prova verso ciò o colui che non si è in grado di accettare, che, in ultimo, è il sofferente stesso: se la sofferenza non deve esistere, neppure il sofferente ha ragione d’esistenza; meglio per lui sarebbe non nascere, non esser nato, morire.

Se questo diventa sentire sociale condiviso, può succedere che eseguire la spietata sentenza del risentimento sia identificato con il migliore esercizio di compassione. Predisporre legislativamente la possibilità di decidere della propria vita sofferente non è offrire una possibilità tecnica neutrale: significa il prendere posizione di una cultura che non sapendo più come rispondere suggerisce all’interrogante di togliersi di mezzo.