Alla scuola dei santi/9. Quando la dignità trionfa contro mafie e corruzione
Il giudice Rosario Livatino (Fotogramma)
Lo scorso 21 settembre, in occasione del ventisettesimo anniversario dell’assassinio del giudice Rosario Livatino, papa Francesco riceveva in Vaticano i membri della commissione antimafia. Nell’occasione il pontefice affermava con vigore: è «decisivo opporsi in ogni modo al grave problema della corruzione che, nel disprezzo dell’interesse generale, rappresenta il terreno fertile nel quale le mafie attecchiscono e si sviluppano». Qui vogliamo ricordare alcuni testimoni che con il loro esempio si sono vigorosamente opposti all’ingiustizia e alla corruzione. All’origine di quel movimento che negli anni Settanta-Ottanta mise gravemente in crisi la mafia in Sicilia e nell’intero paese vi fu il cardinale Salvatore Pappalardo. Nato a Villafranca Sicula in provincia di Agrigento nel 1918, Salvatore compì gli studi liceali a Catania. Si orientò poi per la vocazione sacerdotale e chiese l’ammissione al pontificio seminario romano. Dopo gli studi di teologia venne ordinato sacerdote nel 1941 ed entrò nella segreteria di stato dove salì i gradini della diplomazia vaticana fino a diventare pronunzio in Birmania. Ritornato a Roma nel 1969, l’anno successivo venne nominato da Paolo VI arcivescovo di Palermo. Nel capoluogo siciliano egli prese vigorosamente posizione contro la mafia avviando una stagione di forte moralizzazione della vita pubblica.
Sentendosi in pericolo i mafiosi reagirono con la violenza compiendo una lunga serie di assassini. Grande scalpore destò nel 1982 l’omicidio del prefetto di Palermo, il generale Carlo Alberto Dalla Chiesa e della sua moglie Emanuela Setti Carraro. Merita di essere sottolineato un particolare sul matrimonio di queste due persone. Nonostante i 30 anni di differenza tra il sessantenne generale e la trentenne Emanuela, la loro fu una vera storia d’amore. Il loro matrimonio durò solamente due mesi, ma la scena del generale che, colpito dai proiettili, cercò di proteggere con il suo corpo la più giovane donna racconta di una tenerezza umana e cristiana che rapisce il cuore. In occasione dei loro funerali il cardinale Pappalardo, trascinato da un giusto sdegno, esclamò: «Sovviene e si può applicare una nota frase della letteratura latina, di Sallustio, mi pare: 'Dum Romae consulitur … Saguntum expugnatur', mentre a Roma si pensa sul da fare, la città di Sagunto viene espugnata dai nemici! E questa volta non è Sagunto ma Palermo. Povera Palermo!». Il cardinale non ricordava perfettamente. La frase, infatti, è di Livio, ma nessuno pensò a quell’errore. Tutti ebbero invece l’impressione di aver trovato un autentico difensore della città. Raccogliendo il grido che veniva dal popolo egli esigeva dalle autorità un impegno severo nella lotta contro la mafia. Il cardinale Pappalardo lasciò la guida della diocesi di Palermo nel 1996 dopo 26 anni durante i quali seppe contrapporre alla 'cultura mafiosa' del territorio un deciso e rinnovato impegno pastorale. È morto a Palermo nel 2006.
Nell’elenco dei martiri della giustizia in Sicilia al primo posto viene spesso citato il giudice Rosario Livatino. Nato a Canicattì nel 1952, fin da bambino respirò in casa, dove il nonno e il papà erano avvocati, l’amore alla giustizia e l’impegno per la legalità. Nessuno, dunque, si meravigliò quando, al momento di scegliere la facoltà da frequentare all’università di Palermo, Rosario scelse diritto. Lo studio della disciplina è peraltro accompagnato dalla consapevolezza crescente che il servizio alla giustizia è una missione che richiede dedizione e abnegazione soprattutto in Sicilia. Ha scritto Ida Abate, sua professoressa al liceo: «Rispetto dello stato e del diritto erano per lui la religione del dovere che egli professava nella vita di tutti i giorni e che si intrecciava indissolubilmente, nella sua vita interiore, con una profonda fede in Dio». Con questi sentimenti egli si laurea in giurisprudenza nel 1975 e nel 1978 entra in magistratura. Scrive nell’agenda nella quale riporta le sue riflessioni: «Ho prestato giuramento; da oggi sono in magistratura… Che Iddio mi accompagni e mi aiuti a rispettare il giuramento e a comportarmi nel modo che l’educazione, che i miei genitori mi hanno impartito, esige».
Nel 1979 Livatino entra come pubblico ministero alla procura della repubblica di Agrigento, un incarico che manterrà per 10 anni, scandito da una quotidianità quasi ascetica. Ogni mattina si trasferiva da Canicattì ad Agrigento. Arrivato a destinazione, si dirigeva alla Chiesa di san Giuseppe per una breve preghiera, poi si recava in ufficio e si immergeva nel lavoro fino a sera inoltrata. Non mancavano i giorni in cui bisognava fare gli straordinari ed era sempre pronto ad addossarsi nuovo lavoro. Era, peraltro, anche un giudice che sapeva pensare e riflettere, che teneva delle lezioni di diritto che sono ancora oggi preziose. Parlando di fede e diritto affermava: «Rendere giustizia è realizzazione di sé, è preghiera, è dedizione per Dio… Il rapporto con Dio, inoltre, permette che la giustizia, che non è fine a se stessa, sfoci nella carità, che fa sì che la sanzione che il giudice deve a volte comminare non sia solo forza punitiva, ma servizio di speranza e di recupero per il condannato stesso». Non mancò nel 1986 un periodo di crisi durante il quale il Signore sembrava più lontano, il servizio alla giustizia più amaro per il timore che ne potessero venire delle ritorsioni ai genitori. Da questi mesi travagliati Rosario esce con la decisione di accostarsi alla cresima e di intensificare la sua vita di pietà. Ha scritto il suo parroco: «Giungeva in Chiesa con alcuni minuti di anticipo e si preparava alla partecipazione alla Santa Messa. Spesso si accostava al sacramento della riconciliazione e dell’Eucarestia».
Nel 1989 Livatino diventa giudice a latere. La sua vita non cambia, la guerra di mafia, tuttavia, diventa più feroce e le sue responsabilità aumentano. Sa di essere su una polveriera, ma va avanti e sulla sua agenda scrive: sub tutela Dei, sotto la protezione di Dio. Egli ha tra le mani le carte più scottanti, segue i processi più insidiosi, ma nessuno sembra preoccuparsi di lui. L’epilogo è dunque segnato. Il 21 settembre 1990 come ogni giorno Rosario percorre la statale 640 per recarsi al tribunale di Agrigento. Viene raggiunto da un commando di 4 sicari e barbaramente assassinato. Nel 1993 san Giovanni Paolo II, in occasione di una visita in Sicilia, incontrò i genitori di Rosario, e parlò del loro figlio come di un martire della giustizia. Nel 2011 ebbe ufficialmente inizio la causa di beatificazione del servo di Dio Rosario Livatino. Nel 2016, infine, l’anno del giubileo di misericordia è arrivata proprio al nostro giornale una lettera di conversione che era contemporaneamente una richiesta di perdono di uno dei suoi assassini. Scriveva dal carcere Domenico Pace: «la fede mi aiuta a sperare che il giudice Rosario Livatino mi abbia perdonato… Credetemi lo sento vicino, ogni istante è con me e mi aiuta a vivere con forza d’animo la pena infinita che sto scontando». Insieme al servo di Dio Livatino papa Francesco il 21 settembre ricordò come martiri della giustizia anche i giudici Falcone e Borsellino.
La loro storia di uomini di legge legati fin dall’infanzia da una profonda amicizia è nota. Per il loro lavoro accanito e intelligente si poté celebrare il maxiprocesso che, iniziato nel 1986, giungeva a compimento nel 1992. Finalmente il mondo vedeva la mafia dietro le sbarre, vedeva centinaia di mafiosi definitivamente condannati. Nello stesso anno della condanna, tuttavia, i mafiosi organizzarono la loro vendetta. A maggio venne ucciso il giudice Falcone con sua moglie Francesca Morvillo e la scorta, a luglio identica sorte toccò a Paolo Borsellino e alla sua scorta. A un mese dalla morte dell’amico, così Borsellino ricordò Falcone: «Perché non è fuggito, perché ha accettato questa tremenda situazione?... per amore. La sua vita è stata un atto d’amore verso questa città, verso questa terra che lo ha generato». Identica affermazione si può fare anche per lui che era a conoscenza che la sua ora era imminente, che in città era giunto il tritolo che doveva farlo saltare in aria. Don Cesare Rattoballi, che negli ultimi mesi gli fu vicino, gli domandò a sua volta: «Perché non te ne vai?». Prima di confessarsi rispose: «Prega per la mia famiglia». Fu papa Giovanni Paolo II a definirlo per primo un martire della giustizia, un giudizio che il 21 settembre scorso anche papa Francesco ha fatto suo.
Letture e film per avvicinarsi ai testimoni in terre difficili
Per il cardinale Pappalardo si veda la biografia ufficiale della Santa Sede. Su Emanuela Setti Carraro, Antonia Setti Carraro, «Ricordi, Emanuela?», Rizzoli, Milano 1993; Luigi Castano, «Emanuela Dalla Chiesa Setti Carraro, Una crocerossina secondo il Vangelo», Elledici, Torino 1993; sul giudice Livatino si legga Ida Abate, «Il piccolo giudice», editrice Ave, Roma 2005. Alla vicenda del giudice Livatino sono stati dedicati due film: Alessandro di Robilant, «Il giudice ragazzino», interpretato da Giulio Scarpati e da Sabrina Ferilli nel 1994; Pasquale Pozzessere, «Testimone a rischio», interpretato da Fabrizio Bentivoglio nel 1997. Ambedue i film ebbero consensi di pubblico e di critica. Per Paolo Borsellino si veda Maurizio Calvi-Crescenzio Fiore, «Figure di una battaglia; documenti e riflessioni sulla mafia dopo l’assassinio di G. Falcone e P. Borsellino», editrice Dedalo, Bari 1992; Rita Borsellino, «Il sorriso di Paolo», Ragusa 2005; Umberto Lucentini, «Paolo Borsellino», san Paolo, Cinisello 2008; si veda anche Piera Aiello-Umberto Lucentini, «Maledetta mafia», Cinisello 20012; Agnese Borsellino e Salvo Palazzolo, «Ti racconterò tutte le storie che potrò», Feltrinelli, Milano 2013.