Lettere. Se il Natale assedia chi è nel lutto pellegrini al presepe col cuore a pezzi
Caro Avvenire,
da quando era entrata in casa di riposo quel giorno di luglio, mamma incominciò ad avere il cruccio del Natale. «E questo Natale?» continuava a domandare. «Venite, vero, a casa?». «Casa» era la casa di riposo. Ogni anno si andava a casa sua, quella vera, a “mettere le gambe sotto il tavolo”, come si usava dire. Da sempre con papà lei studiava mesi prima il menu da preparare, annotava i piatti su un foglio e su un altro gli ingredienti da comprare, finché, due sere prima, preparavano la pasta: mamma impastava, papà la stendeva girando la manovella della macchina Imperia mentre lei ciapulava il ripieno dei ravioli che metteva con un cucchiaio sulla sfoglia tesa sulla forma. Papà, poi, con la precisione del geometra li tagliava con la rotella e li sistemava su un piano di legno infarinato a dovere. Poi, riempito ogni centimetro dell’asse con ravioli e con i tajarin fatti con la pasta residua all’esaurirsi del ripieno, papà sotto la direzione di mamma lo collocava in giusto equilibrio su uno sgabello in sala da pranzo dove non si andava mai e dunque si poteva tenere spento il termosifone. Tale il rito, che i miei figli spesso partivano da Torino per almeno assistervi, se non aiutare.
Poi papà morì, otto anni fa, e i ravioli mamma li comprò invece di farli. Ma il Natale si continuò a festeggiare nella sala da pranzo tirata a lustro, tranne gli ultimi due anni, quando rompendo la tradizione familiare si andò al ristorante. Ma per mamma festa voleva dire anche solo vedere figli e nipoti, seduti semplicemente attorno al tavolo della cucina a condividere piatti sempre meno elaborati e talora con qualche pecca. Il medesimo tavolo che preparai (senza tovaglia) il 6 luglio per quella che pensai fosse l’ultima volta che lei e io avremmo mangiato insieme a casa; avevo ragione in parte, perché mangiai solo io ciò che, malata, aveva preparato: uno splendido passato denso di verdure e tre pere cotte. In ospedale, due giorni dopo, mi offrì i ravioli che lei non avrebbe toccato. E poi, in casa di riposo, ultima volta che ci mettemmo attorno al tavolo, per la festa di Ferragosto. La notte prima aveva avuto una crisi respiratoria, ma pazienza. Non mangiava e metteva da parte i pacchettini monodose di frollini di cui mi riempiva le tasche, e mi offrì (e io mangiai) mezzo piatto di gnocchi fumanti che altrimenti lei non avrebbe assaggiato. Al pronto soccorso, col respiratore che le impediva persino di parlare, disse all’infermiere entrato con un vassoio con purè, formaggino e bottiglietta d’acqua: «Prima mio figlio»: come se avessi avuto voglia di mangiare. Lei bevve solo un goccio d’acqua, e morì poco più di 24 ore dopo. E questo Natale lei e papà staranno preparando i ravioli per i loro vecchi.
Nelle prime righe questa lettera mi ha fatto balenare negli occhi immagini di perduti, remoti Natali. La tavola di marmo, nella cucina di casa, ricoperta da una fila di agnolini fatti a mano, disposti come una schiera di soldati, in rigorosa geometria. E la mano di mia madre che girava la manovella della macchina della pasta, e farina dappertutto, mentre dal forno si allargava il profumo dell’arrosto, e l’aroma del rosmarino. E i vetri delle finestre appannati di vapore: dentro un dolce tepore, fuori il gelo e la nebbia. Quanti di noi hanno simili ricordi nel cuore, sotto Natale?