Dopo il decreto. Le vie straordinarie della grazia quando è impossibile confessarsi
Siamo disorientati e ci sentiamo soli. Inutile volerlo negare a tutti i costi: l’interruzione delle relazioni non ci lascia indifferenti nemmeno a livello ecclesiale. Abbiamo, umanamente e da credenti, bisogno di abbracciare, accarezzare, baciare, perché «la parola senza bacio lascia più sole le labbra» (Clemente Rebora). Il fatto che il popolo di Dio avverta la mancanza dei sacramenti viene a dirci che la sacramentalità è condizione imprescindibile dell’esistenza cristiana e, come tale, si esprime nella sua forma cattolica. Come far sì che la misericordia di Dio ci raggiunga in questo “tempo della povertà” (Martin Heidegger)? La via ordinaria della grazia sono i sette segni sacramentali, ma, in tempi straordinari, nessuno può impedire a Dio di raggiungerci per vie straordinarie.
Per quanto riguarda il sacramento della riconciliazione la grande tradizione della nostra Chiesa ce ne indica due. E sia papa Francesco (nell’omelia del 20 marzo a Santa Marta) che la Penitenzieria Apostolica non fanno che confermarle. I sacramenti non sono gesti magici, che automaticamente producono la grazia e, nel loro profondo realismo, non possono essere celebrati se non in presenza reale e non virtuale o digitale. La grazia del perdono può raggiungerci in tempi straordinari in maniere straordinarie. Una modalità attraverso cui la grazia del perdono ci può raggiungere è quella che la tradizione cattolica denomina “atto di contrizione perfetto”. Anche questo caso è previsto dal Catechismo: «Quando proviene dall’amore di Dio amato sopra ogni cosa, la contrizione è detta “perfetta” (contrizione di carità). Tale contrizione rimette le colpe veniali; ottiene anche il perdono dei peccati mortali, qualora comporti la ferma risoluzione di ricorrere, appena possibile, alla confessione sacramentale» (CCC 1452). Rinveniamo qui una citazione implicita dell’Atto di dolore, nel quale invochiamo il perdono, non tanto per paura del castigo divino, ma perché, col peccato, abbiamo rotto l’amicizia/alleanza con Dio.
La Chiesa inoltre ci aiuta e ci sostiene indicando la possibilità di ricevere l’assoluzione comunitaria, senza la Confessione individuale, ma attraverso quella “generale” dei peccati. Il Catechismo della Chiesa Cattolica prevede questa possibilità: «In casi di grave necessità si può ricorrere alla celebrazione comunitaria della Riconciliazione con Confessione generale e assoluzione generale» (CCC 1483). In questo senso il vescovo di Arezzo-Cortona-Sansepolco ha interpretato e messo in atto questa indicazione della Chiesa, compiendo un gesto che, per la sua eccezionalità, ha avuto risonanza mediatica. In entrambi i casi è determinante il proposito di celebrare il sacramento in presenza il prima possibile.
«La Rivelazione è orientamento» (Offenbarung als Orientierung), nel tempo del disorientamento, come insegna Franz Rosenzweig. E la Rivelazione è sacramentale, in quanto si compie attraverso gesti e parole. Mentre siamo invitati a riscoprire la sacramentalità della parola, in questo deserto che rende impossibile o difficile la gestualità, sia a livello dei rapporti tra noi, sia nel nostro rapporto con Dio, forse possiamo iniziare a comprendere e magari continuare ad approfondire la nostra fede.
La nostra attesa del ritorno alla vita sacramentale è come quella di due innamorati costretti alla lontananza, che cercano di sopperire con le telefonate o le connessioni Skype e virtuali inventando forme di vicinanza, che comunque alimentano il desiderio e rivelano la necessità dell’incontro reale. E la metafora sponsale esprime il rapporto dell’anima con Dio. Giovanni della Croce ci ha insegnato con i suoi versi la necessità che l’amore si incarni: «Scopri la tua presenza / e mi uccida così la tua bellezza; tu sai che sofferenza / di amore non si cura / se non con la presenza e la figura» (Cantico spirituale, 11). Ma anche la celebrazione dei sacramenti è gravida di attesa, in quanto, mentre rende presente il Regno di Dio, alimenta in noi il desiderio della pienezza escatologica. Si tratta della “sete” (come nel romanzo recente di Amélie Nothorp) di Dio (genitivo oggettivo) e dell’incontro incarnato con Lui, ma anche della sete di Dio (genitivo soggettivo), che non vede l’ora di poterci di nuovo incontrare nel realismo dei sacramenti in particolare dell’Eucaristia.