Opinioni

L'astensione vista e prevista. I nodi politici da sciogliere. Qualificare la domanda per cambiare l’offerta​

Domenico Delle Foglie sabato 17 novembre 2012
I sondaggi sono impietosi, quasi come le urne vere di Sicilia: il primo partito italiano resta quello dell’astensionismo. Il fatto che solo 47 elettori isolani su cento si siano recati ai seggi, mentre gli altri hanno preferito 'gridare' il proprio disincanto verso la politica, accanto alla valanga di schede bianche e nulle che ha accompagnato quel non-voto, ci ha riproposto un uso politico dell’astensione come strumento di protesta popolare. E le indagini condotte su scala nazionale sugli umori dei cittadini confermano che in tanti sono decisi a 'pesare' anche per questa via. Nell’analisi sull’astensionismo, a ragione, ci si è soffermati sia sull’inadeguatezza della 'offerta politica' e dei meccanismi di selezione della classe dirigente che contraddistinguono l’attuale scena italiana sia sul conseguente deficit di rappresentatività sia sull’umore di fondo particolarmente negativo e aggressivo nei confronti di tutto ciò che è riconducibile ai partiti che ha trovato (e trova) continuamente motivi per svilupparsi. E pensare che la nostra Costituzione riconosce una centralità ai partiti nella formazione del consenso che avrebbe dovuto garantire, attraverso il pluralismo, una pienezza di democrazia rappresentativa. Ora, dinanzi a questa sfiducia di fondo, si pongono due domande: è davvero solo una questione di 'offerta politica', per usare una terminologia quasi mercantile? Oppure si tratta anche di un problema di 'domanda politica'? E ancora: tocca solo alla classe politica la responsabilità di riportare i cittadini-elettori alle urne? Proviamo a rispondere. Innanzitutto la questione della 'domanda politica'. Finito il tempo del vecchio collateralismo, organico a un sistema di chiese-partito come la Democrazia cristiana e il Partito comunista, nel tempo si è venuta rafforzando una dimensione lobbystica della rappresentanza degli interessi. Come è facile intuire, le lobby sono altro dalla società civile. In un certo senso rappresentano solo lo sbocco finale e diretto di un’interlocuzione spesso mossa da un intento spartitorio della torta pubblica. Nel frattempo, l’esistenza dei partiti della cosiddetta Seconda Repubblica è divenuta sempre più dipendente dalla tv e perciò priva di vita propria e autonoma. I partiti hanno perso o ampiamente ridimensionato il proprio spazio di elaborazione culturale e di proposta politica, riducendo spesso l’azione alla semplice propaganda, preferibilmente televisiva . Una tale diaspora della politica, dinanzi all’emergenza finanziaria del Paese, ha reso necessario il ricorso all’aiuto di un governo tecnico per rimettere l’Italia in carreggiata. In questo contesto difficile, occorre che si moltiplichino luoghi nuovi di 'domanda politica' e processi alternativi che la sappiano incanalare nel solco democratico. Al di là del libero giudizio di ciascuno sul grillismo, di sicuro la scelta della Rete come luogo politico, ha prodotto una nuova 'domanda politica' che va decifrata e resa spendibile. Il grillismo è una risposta, ma altre possono e debbono essere articolate da una società civile giovane, innovativa, radicata nei territori, ancorata ai propri valori. Infine, la questione dell’astensionismo e del ruolo di ciascuno nel riportare alle urne quanti sono ormai disaffezionati. In questa impresa un ruolo speciale può essere svolto dal laicato cattolico organizzato. È evidente che nei momenti più delicati della vita repubblicana (le prossime elezioni lo saranno) i cittadini hanno sempre risposto numerosi alla chiamata alle urne. Ma oggi serpeggiano delusione e scetticismo. Rimuoverli, individuando insieme le buone ragioni per votare non è un esercizio secondario. A cominciare dalla riscoperta del diritto-dovere del voto che ci qualifica come cittadini che vivono, con responsabilità, lo spirito repubblicano.