Opinioni

Editoriale. Quale gioco conta davvero

Luigino Bruni sabato 10 agosto 2024

L'homo sapiens è un animale agonistico. Per moltissimo tempo i nostri concorrenti sono stati gli eventi naturali, gli animali predatori, le altre comunità umane rivali per le poche risorse. Dietro il fascino che esercitano ancora su di noi corse, salti e frecce ci sono tracce di un Dna collettivo che ha svolto quei gesti essenziali per decine di migliaia di anni, dal cui successo dipendeva spesso la sopravvivenza. Da lì il loro richiamo primordiale che ci incolla e incanta davanti alla tv e negli stadi.
Le olimpiadi sono una grande expo della commedia umana, una celebrazione di alcune tra le dimensioni migliori degli umani. Quella eccellenza esposta e celebrata è frutto di virtù che apprezziamo e desideriamo per noi e per tutti. Tra queste la capacità di auto-disciplina, la tenacia, l’elaborazione delle sconfitte, la lealtà, tanto che abbiamo anche inventato un sostantivo sintesi: la sportività. Ed è difficile trovare qualcuno che neghi che queste sono virtù universali che valgono in ogni ambito della vita.
Accanto a queste virtù evidenti ci sono altri aspetti più controversi. Tra questi un certo ambiente militaresco che circonda lo sport e le olimpiadi di più, fatto di bandiere e quindi di quel patriottismo che per qualcuno è virtù ma per altri (me incluso) no - dopo ogni grande evento sportivo globale, ad esempio, l’idea di Europa ne esce sempre indebolita. Anche se si potrebbe ribaltare questa legittima critica restando sullo stesso piano: lo sport è anche una elaborazione narrativa e simbolica della violenza per trasformarla nel suo opposto. È metamorfosi della guerra, è una sua resurrezione.
E, forse, guardando quelle spade flessibili e spuntate che fanno accendere soltanto una luce verde o rossa e quelle lance scagliate senza un nemico da colpire, possiamo addirittura scorgervi una certa realizzazione della grande profezia di Isaia: “Spezzeranno le loro spade e ne faranno aratri, delle loro lance faranno falci … non impareranno più l’arte della guerra” (Is 2,4).
Una volta riconosciuta tutta questa bellezza, possiamo e dobbiamo però provare a dire qualcos’altro. Lo sport, se guardato bene, è un grande fenomeno cooperativo. Ciò è evidente negli sport di squadra, ma non è meno essenziale in quelli individuali. Dietro a ciò che appare talento e abilità di un singolo atleta c’è davvero un ‘intero villaggio’ fatto di allenatori, tecnici, medici, federazione, società sportive amatoriali, compagni di allenamento, e molti altri ancora. Tra questi ‘molti altri’ ci sono anche i concorrenti, compagni ma essenziali di ogni atleta, perché la bravura di chi compete con noi è ingrediente decisivo nei nostri buoni risultati - una sventura di un potenziale campione è non avere abbastanza concorrenti eccellenti. Nello sport (e nella vita) anche la competizione è una forma di cooperazione.
E invece nella narrativa sportiva è proprio la dimensione cooperativa a mancare, sovrastata e ammutolita da quella costruita sulla rivalità e sul medagliere. Il successo di una performance è misurata sull’unico asse delle medaglie; un quarto posto è considerato una sconfitta, al punto che la federazione italiana ha fatto un contro-ricorso (non accolto) per trasformare in terzo un ottimo quarto posto con record italiano, chiaramente a scapito di un’altra atleta.
È infatti la logica posizionale la criticità della grande metafora olimpica, anche perché nelle olimpiadi diventa più forte ed assoluta. Chi fa sport o lo ama sa bene che il ‘successo’ in una manifestazione sportiva è una funzione con molte variabili. Insieme al risultato finale del ranking, che certamente conta, c’è il proprio miglioramento, c’è il passaggio dei primi turni accompagnato dal calore della folla, e soprattutto c’è la partecipazione all’evento voluto e sognato fin da bambino. Abbiamo finito per ridicolizzare il motto di De Coubertin - ‘L’importante è partecipare’ -, che sottolineava quale fosse il primo ‘premio’ dello sport: poter gareggiare, come ci hanno ricordato le nuotatrici Francesca Fangio dopo la sua eliminazione e Giulia Gabrielleschi dopo il suo sesto posto.
Quando allora si assolutizza la dimensione posizionale dello sport, le vittorie e le medaglie, quel grande spettacolo delle olimpiadi si guasta. Il villaggio olimpico, visto da fuori (non da dentro), perde la sua stupenda democraticità e uguaglianza e si divide in vincenti e perdenti, lo sport diventa l’apoteosi della diseguaglianza della società degli ‘happy few’ - i vincenti di medaglie olimpiche sono nel mondo molti meno dei miliardari. C’è una coerenza tra uno sport che vede solo le medaglie e una società che vede solo il PIL - tra l’altro è quasi perfetta la sovrapposizione tra il ranking del medagliere e quello del PIL.
Lo sport è sempre stato così. Da sempre le lacrime di gioia dei vincitori hanno avuto bisogno di quelle di tristezza degli sconfitti. Da sempre io posso essere primo solo se esistono i secondi e gli ultimi. È vero. Però la dimensione posizionale sta aumentando insieme all’estensione della cultura del capitalismo fondato sui dogmi della meritocrazia e della leadership. Infatti, il tarlo non si trova nella comunità degli sportivi. La malìa emerge quando prendiamo lo sport e lo facciamo diventare metafora del mondo; quando il ranking, i vincenti e i medaglieri lasciano gli stadi e le piscine e si espandono in altri campi. Perché quel ‘gioco a somma zero’ (-1/+1), una dimensione importante della competizione sportiva, non è il gioco della vita civile ed economica, che è invece il luogo dei ‘giochi a somma positiva’ (+1/+1). Nella cooperazione economica e civile non solo non contano i ranking, ma sua logica è radicalmente diversa: uno scambio tra un grande e un piccolo può essere per entrambi più vantaggioso di uno scambio tra due ‘grandi’.
Nelle imprese e negli uffici ci sono anche dimensioni posizionali; ma l’economia e la società sono prima e soprattutto network cooperativi, dove la mia ‘vittoria’ non ha bisogno della ‘sconfitta’ di qualcun altro. Le medaglie al merito, che purtroppo stanno aumentando nella nostra società posizionale, sfilacciano i rapporti lavorativi e peggiorano le ‘performance’ di tutti.