L'intervento. Punito chi salva. Così si sguarnisce la prima linea dei soccorsi
Riportare in Libia i migranti è considerato un reato. E l’Italia continua a sanzionare le Ong che soccorrono Più morti e meno soccorsi. Accade in questi giorni. Se un Paese in grave emergenza, con rischi e pericoli mortali in corso, rinunciasse, anzi bloccasse, una parte dei soccorsi, diremmo che è follia. Politicamente e umanamente. Chi bloccherebbe gli “angeli del fango” che accorrono, magari in modo un po’ disordinato ma con un grande cuore, in occasione delle sempre più frequenti alluvioni? Nessuno. Chi fermerebbe lo splendido mondo del volontariato che ogni giorno, gratuitamente, è al fianco degli ultimi, dei fragili, degli scartati? Nessuno. Invece accade in Italia. Mentre quasi ogni giorno ci arrivano notizie di naufragi lungo le coste tunisine, libiche o davanti Lampedusa, le autorità italiane bloccano per decine di giorni le imbarcazioni delle Ong, “colpevoli” di aver soccorso troppo, di aver salvato troppo e, soprattutto, di non aver collaborato con la cosiddetta guardia costiera libica. Anzi di aver “ostacolato” il suo intervento per riportare i migranti indietro. Dove? Nei ben noti lager, come denunciato ripetutamente dai rapporti dell’Onu. Così le organizzazioni del volontariato intervengono, correndo gravi rischi perché, come documen-tato, i libici speronano e sparano. Ma facendo così vengono punite.
Lo scorso anno le Ong hanno subito ben 16 fermi amministrativi, quest’anno siamo già a 6 in poco più di due mesi (attualmente sono tre le imbarcazioni bloccate nei porti italiani). Fermi di 20 giorni, oltre alla sanzione amministrativa di migliaia di euro, ma ora anche di 60 giorni, come accaduto alla Sea Eye 4, sanzionata per aver ripetutamente “ostacolato” l’intervento della Libia. Decisioni decisamente stonate, ancor più dopo la sentenza della Cassazione dello scorso 17 febbraio che, condannando il comandante del rimorchiatore Asso 28 che aveva consegnato ai libici 101 migranti salvati, aveva operato “un respingimento collettivo in un porto considerato non sicuro come quello libico”. Violando norme italiane e internazionali. Riportare i migranti in Libia è dunque un reato. Non lo è soccorrerli, salvarli e portarli in Italia. Sembrerebbe ovvio, non solo perché lo dicono da secoli le leggi del mare, ma una sentenza definitiva del massimo organo giudiziario italiano. Invece si punisce chi salva e anche chi è salvato dalle Ong, obbligandoli a un ulteriore viaggio verso porti lontani giorni di navigazione. E poi si bloccano le imbarcazioni sguarnendo la prima linea dei soccorsi. Proprio là dove spesso la Guardia costiera italiana, che diversamente da quella libica salva davvero, chiede l’aiuto, il supporto, l’affiancamento delle Ong. Perché i nostri marinai da soli non ce la fanno. Come accade in tante altre emergenze “terrestri” dove accanto alle divise dei Vigili del fuoco ci sono i jeans dei giovani di tante associazioni. Un coordinamento tra gente del mare, in divisa e volontari, che evita naufragi e morti.
Ma a Roma si ragiona diversamente. Con i decreti seguiti alla strage di Cutro c’è stata una ulteriore stretta su Ong e migranti, pensando sia un deterrente per non far partire gli immigrati. Che invece continuano a partire e a morire: oltre 2.500 morti lo scorso anno nelle acque del Mediterraneo centrale, già 215 nel 2024. Meno soccorsi, meno soccorritori, non possono che favorire le tragedie. Lo scorso 21 febbraio il Tribunale di Brindisi ha sospeso il fermo amministrativo di 20 giorni imposto alla nave Ocean Viking, della Ong Sos Mediterranee, il secondo quest’anno, in quanto “il perdurare della misura del fermo amministrativo è suscettibile di pregiudicare in modo irreversibile il diritto da parte della Sos Mediterranee e Ocean Viking di esercitare la propria attività di soccorso in mare, in cui si realizzano le sue finalità sociali”. Cioè salvare vite umane.