Puglisi, l'esempio del Vangelo /1. La mafia è ateismo malgrado l'apparenza
Ateismo di mafia. Odio alla fede di stampo mafioso. Non ci sono altri termini per definire la "religiosità" delle cosche mafiose, perché non esiste altro credo professato nell’agire delle associazioni criminali come "cosa nostra" se non l’ateismo e l’odium fidei. Il colpo di pistola alla nuca per mano mafiosa, sparato a distanza ravvicinata, venticinque anni fa, la sera del 15 settembre 1993, a Palermo, non tolse di mezzo solamente la testimonianza esemplare della verità del Vangelo di don Pino Puglisi, fu anche il crinale ecclesiale per giungere alla piena consapevolezza riguardo al carattere ateo della realtà profondamente antievangelica della mafia, seppure spesso ammantatasi di linguaggi e cerimonie "religiosi" e costituita da persone battezzate, quindi, anagraficamente cristiane.
È questa la piena e matura consapevolezza che sottende anche oggi la visita palermitana dell’attuale Vescovo di Roma in memoria del parroco martire di Brancaccio. Ed è anche alla base delle sue precedenti dure dichiarazioni, nelle quali più volte ha stigmatizzato la mentalità mafiosa come antitetica e «opposta al Vangelo», «espressione di una cultura di morte, da osteggiare e da combattere», e l’ha scomunicata, nel suo viaggio in Calabria il 21 giugno 2014, per poi fulminarla nuovamente nel giugno dello scorso anno con un’altra doppia scomunica per «mafiosi e corrotti»; i quali «non possono dirsi cristiani» perché «portano la morte nell’anima e agli altri» e «hanno il cuore pieno di putredine».
La traccia di questa linea ormai inconciliabile e invalicabile tra la Chiesa e le mafie si trova ben espressa nel solco dei pronunciamenti magisteriali degli anni Novanta, in particolare dei vescovi siciliani, ma ha il suo punto cruciale proprio nella riflessione storica e teologica sull’azione pastorale di don Pino Puglisi nel quartiere palermitano di Brancaccio, riflessione compiuta nel corso del processo canonico istruito nel 1998 a cinque anni dal suo assassinio ai fini del riconoscimento del suo martirio in odium fidei. Subito dopo l’omicidio del sacerdote, l’allora cardinale di Palermo Pappalardo, si chiese pubblicamente come mai non si percepisse «sempre e dovunque l’insanabile contrasto che in linea di principio si pone tra l’essere mafioso e il professarsi cristiano della mafia».
È la più nitida formulazione fatta sulla questione, e permette di comprendere anche perché la mafia nell’uccidere don Puglisi ha agito in odio alla fede. E negli atti del processo canonico è espressa così: «Contrariamente a quanto si crede, la mafia è strutturalmente una grave forma di ateismo. Utilizza anche immagini, simboli tratti dal codice culturale religioso, ma resta essenzialmente atea». «La mafia – è spiegato ancora negli atti processuali – è una forma di ateismo perché colloca un uomo, o un gruppo di uomini, come detentori totalizzanti del potere e del sapere e non accetta che vi sia altra istanza più alta al di fuori di essa… chiedendo sottomissione e omertà, questo è contro la dignità della persona umana, contro il Vangelo, contro la libertà dei figli di Dio. L’equivoco della gerarchia in passato fu perciò quello di sostenere che il problema mafia fosse solo morale e circoscritto esclusivamente ai fatti delittuosi che, pur essendo più appariscenti, non sono tuttavia la sostanza della mafia».
Questo spiega anche perché in passato da parte dei vescovi «ci si preoccupò molto dell’ateismo ideologico del marxismo e poco o niente dell’ateismo di mafia che si colora di vernice cristiana per strumentalizzare le ritualità religiose popolari onde affermare un ruolo sociale di assoluto predominio e legittimare nel silenzio del clero il proprio potere».
La riflessione rivela chiaramente come le mafie, al di là dell’apparente religiosità che presentano, sono intrinsecamente atee e contrarie al Vangelo di Cristo. Per questa ragione colpiscono anche con la morte tutti quelli che, esercitando le virtù richieste da una vita coerente con la fede cristiana, diventano ostacolo ai suoi criminali e malvagi commerci. È stato così dunque anche per il sacerdote del quartiere palermitano di Brancaccio, la cui testimonianza evangelica di credente e di ministro del Signore che si è adoperato limpidamente per l’evangelizzazione e la promozione umana della gente a lui affidata, e specialmente delle giovani generazioni, lo ha reso bersaglio della mafia.
Scorrendo le sentenze dei processi emergono eloquenti in questo senso le parole del killer mafioso, pentito, Giovanni Drago: «Puglisi era una spina nel fianco. Predicava, predicava, prendeva i ragazzini e li toglieva dalla strada… ogni giorno martellava e rompeva le scatole. Questo era sufficiente, anzi sufficientissimo per farne un obiettivo da togliere di mezzo». Mentre un altro testimone afferma: «Era un prete che non si faceva i fatti suoi, e in Sicilia il non farsi i fatti propri ha un significato molto particolare. Puglisi sapeva che il prete non si deve fare i fatti propri, altrimenti è fallito come prete. Gli interessi di tutti, dei poveri, degli oppressi, dei giovani, sono fatti suoi».
Non era da considerarsi perciò un "prete antimafia", ma un esempio di pastoralità che si lascia interpellare dai bisogni e dalle attese dell’ambiente e che, sempre in fedeltà al Vangelo, si apre a responsabilità civili e impegni sociali. «Il mio lavoro è sempre stato "per", non "anti". Anche per i mafiosi, purché mostrino segni di ravvedimento», rispondeva lo stesso don Puglisi. È da questa consapevolezza che deriva l’esigenza ormai inderogabile della rottura ferma e decisa con tutto quanto ha favorito il rafforzarsi della mafia e ad assumere in maniera sempre più diffusa l’insegnamento che viene dal martirio di don Puglisi. Specie in ordine all’educazione delle nuove generazioni. Egli intuì che la via obbligatoria dell’evangelizzazione in Sicilia su questo particolare punto non poteva non essere che quella dell’educazione dei ragazzi e dei giovani, che bisogna partire o ripartire dalle nuove generazioni nella convinzione che è possibile staccarle da un una mentalità secondo cui è possibile essere mafiosi o comunque, essere conniventi con l’organizzazione mafiosa.
Questa è la via che la Chiesa è chiamata a percorrere con costante impegno pastorale, e costituisce certamente un compito storico della Chiesa in Sicilia, tanto più urgente quanto più la presenza della cultura mafiosa compromette l’annuncio stesso del Vangelo e la sua accoglienza.