L’unica vera “arma disarmata” contro la violenza. Può vincere il male l'innocente che perdona
Ci ferisce e ci provoca la cruda violenza, senza pietà alcuna, del massacro di Dacca, non meno dello stillicidio, quasi quotidiano e talora sottaciuto, di donne e uomini rei soltanto di non professare la stessa fede dei loro assassini (se di fede libera e originale si tratta, o di sopravvenuto indottrinamento ideologico di cui loro stessi sono prigionieri, è questione dibattuta). Ferisce e provoca – e, dunque, interroga, scava – il nostro spirito di donne e uomini che pesano il valore della vita umana, ne riconoscono l’inalienabile dignità e ne promuovono i diritti, per tutti (compresi coloro che li calpestano con l’odio e la violenza). Questa è la civiltà in cui sono cresciuti, nei secoli, il Vecchio e il Nuovo Continente, e da cui è nata (ed è rinata, dopo i totalitarismi del XX secolo) la nostra idea e la nostra esperienza di democrazia “laica”, cioè valorizzatrice del bene che è in ogni cittadino in quanto donna e uomo libero, intelligente, responsabile e in relazione positiva con tutti. Senza “pregiudicare” (tanto meno condannare) la dinamica del senso religioso di cui è fatto ogni cuore umano, che la figura della fede realizza nelle diverse forme storiche di cui l’umanità è popolata e per noi cristiani si è compiuta in Gesù di Nazareth. Ma non ci possiamo fermare qui. Pur accomunati – nella severissima riprovazione di quanto accaduto e nella fermissima richiesta di punire i responsabili, proteggere efficacemente altre possibili vittime e disarmare definitivamente i carnefici – alle voci della società civile, che alte e nobili si levano da ogni dove, con l’eco dei fatti atroci di cui i nostri fratelli e le nostre sorelle sono state vittime, ci sovvengono – e ci urtano e inquietano (sarebbe un grave sintomo se ne fossimo diventati insensibili, anestetizzati verso il Vangelo) – le parole di Cristo: «Amate i vostri nemici, fate del bene a coloro che vi odiano, benedite coloro che vi maledicono, pregate per coloro che vi maltrattano». E ancora: «A chi ti percuote sulla guancia, tu porgi anche l’altra». (Lc 6, 3729). Sento già il fruscio di chi sta cambiando colonna o voltando pagina dopo aver letto queste righe: una predica irricevibile con quanto accaduto, inopportuna nelle circostanze presenti (prestare il fianco a chi ci minaccia non è forse incitarlo a reiterare il delitto?), quanto meno un devoto pensiero da bisbigliare in sacrestia ma non far sapere pubblicamente. Eppure il Vangelo è fatto per tutti i giorni, per i momenti della festa e del lutto, per il Natale ed il Venerdì Santo della vita, per il tempo della vittoria e della sconfitta (apparente), per i forti e (soprattutto) per i deboli, per chi lo ascolta con buona disposizione e chi ne approfitta per compiere il male. Da sussurrare negli orecchi e da gridare dai tetti. E nessuna pagina del Vangelo vale meno delle altre: restano insieme o cadono tutte. Sono il “canone”, la regola aurea della vita cristiana, di cui non ci è consentito purgare neppure un versetto. Ed è lo stesso Vangelo, in altra sua pagina – quella drammatica della Passione, che gronda sangue innocente – ad offrirci una lettura di queste parole così dure, impenetrabili dal nostro cuore ferito per quanto accaduto. Quando essere colpito sulla guancia è stato lo stesso Gesù – da una guardia, durante l’interrogatorio – la sua risposta, l’“altra guancia” del suo volto, è stata una domanda: «Se ho parlato male, dimostra il male che ho detto; ma se ho parlato bene, perché mi percuoti?» (Gv 18, 23). Anche noi, duemila anni dopo, chiediamo a chi ferisce il corpo di Cristo, la Chiesa, colpendo mortalmente le sue membra, i cristiani, e tutte le donne e gli uomini, di ogni fede, che partecipano – in virtù dell’Incarnazione del Verbo – della stessa carne in cui è nato Gesù: «Se abbiamo sbagliato, diteci dove e quando; ma se seguiamo Gesù sulla via del bene che Lui è per tutti, perché fomentate odio e violenza contro di noi e ci colpite a morte?» Non possiamo tacere questa domanda ragionevolissima che sfida la ragione degli uomini del terrore e della morte, mette a nudo le loro intenzioni e smaschera le loro azioni. Dalla croce Gesù ha amato i suoi nemici, giudicandoli secondo verità e misericordia: «Padre, perdona loro perché non sanno quello che fanno». (Lc 23, 34) Il male che hanno compiuto è così grande che non sono capaci di portarne la coscienza (così è il delitto contro un innocente, che non ha movente se non l’odio cieco e la vendetta per un torto che non è stato subìto). Ma più forte del loro male è il perdono di un innocente, che spiazza ogni alibi che una malcelata copertura ideologica può costruire. Il perdono è un giudizio che va alla radice del cuore degli uomini del terrore e della morte, laddove si annida il seme della violenza, ed è la sola “arma disarmata” che lo può ultimamente sconfiggere.