Tra il ben-vivere, la buona economia e la virtù della prudenza c’è sempre stata una profonda amicizia. Ma ciò che è stato, ed è, veramente importante è sapere riconoscere la prudenza non virtuosa, e quell’imprudenza che può dirsi virtù.
L’aurora della modernità è stata attraversata dal dibattito sui meccanismi, per alcuni provvidenziali, per orientare al benessere sociale non solo le scarse virtù, ma anche e soprattutto gli abbondanti vizi delle persone reali, i vizi dell’«uomo qual è, per farne buoni usi nell’umana società» (Vico,
La scienza nuova, 1744). In questo contesto Adam Smith dimostrò, convincendo molti, che lo sviluppo e la ricchezza delle nazioni non nascevano dal vizio dell’avarizia né dalla passione triste dell’egoismo, ma dalla virtù cardinale della prudenza, «la cura dei beni, del rango e della reputazione dell’individuo» (Smith,
Teoria dei Sentimenti Morali, 1759). È dunque prudente il buon padre (o madre) di famiglia che si prende cura del proprio patrimonio, ne fa manutenzione, lo fa crescere, che dona l’auto al figlio maggiorenne e gli dice: «Mi raccomando: abbine cura».
Tutto questo è senz’altro virtù, è bene individuale e bene comune. E se guardiamo nella nostra storia ci accorgiamo che la virtù della prudenza la ritroviamo alla radice della nostra civiltà contadina e artigiana, dove ci si educava al buon uso dei beni, alla manutenzione delle poche cose, e a far crescere prudentemente patrimoni, sogni e progetti di vita. Una storia che ci ricorda che i comportamenti viziosi contro la prudenza sono lo spreco, l’incuria, la stoltezza di chi sperpera i propri beni (o quelli dei genitori), e ci deve riportare alla mente che il nostro benessere dipende anche, e spesso soprattutto, dalla virtù dei nostri concittadini, da come e se il vicino di casa cura il proprio giardino e paga le tasse, dalla virtù dei clienti o da quelle della pubblica amministrazione.
Quel primo ottimismo illuminista della trasformazione delle prudenze degli individui in virtù pubblica, è durato poco – sebbene ancora qualcuno continui, ideologicamente o ingenuamente, ad invocarlo. Basta soltanto leggere i romanzi di Giovanni Verga per accorgerci che lo scenario era già radicalmente cambiato. I vizi privati lasciavano già troppi «vinti» lungo la «fiumana del progresso», e la Provvidenza era diventata il barcone naufragato di Patron ’Ntoni. Quella sperata, e coralmente invocata, economia di mercato armoniosa e mutuamente vantaggiosa stava infatti diventando il capitalismo. Le sue strutture di potere stavano ricreando nuove forme di feudalesimo, nuove diseguaglianze, nuove rendite, nuovi nobili contraddistinti da un diverso, ma non meno efficace, sangue blu. In particolare, ci siamo accorti - e ci accorgiamo sempre di più - che i processi più importanti dell’economia si svolgono dentro le istituzioni, nelle organizzazioni (e tra queste lo Stato), nelle banche, nelle imprese, dove la prudenza e le virtù dei singoli non producono vita buona se si attuano all’interno di rapporti di potere asimmetrici che rafforzano le diseguaglianze di ogni tipo.
Ecco allora che lo scenario cambia radicalmente, e alla persona prudente non è soltanto chiesto di orientare secondo virtù la propria vita e quella della propria famiglia, ma di agire per far sì che cambino leggi, strutture, sistemi di governance delle imprese e dei tanti beni comuni. E così si inizia a scrivere un nuovo-antico capitolo morale di cruciale rilevanza: se una persona virtuosa vive dentro istituzioni viziose, per poter vivere veramente la virtù della prudenza deve saper agire anche in modo imprudente. Se vuole essere veramente virtuoso e prudente, deve saper mettere in secondo piano la cura di sé, dei propri interessi, dei propri patrimoni, persino dei propri affetti. Se chi vuole e deve denunciare manifeste ingiustizie e non-verità, di fronte a ricatti e ritorsioni "prudentemente" si tace, non vive quella dimensione della prudenza che chiamiamo virtù.
Certo, qualche bravo filosofo potrebbe sostenere che dovremmo allargare il concetto di prudenza fino a farci rientrare un sé meta-individuale e anche i beni spirituali o persino ultraterreni. Personalmente preferisco invece pensare che per capire il valore e la logica delle virtù occorre prendere sul serio la loro natura paradossale. La virtù è veramente virtuosa quando muore e si apre a un "oltre" più grande, in un rapporto nuovo con le altre virtù vere o presunte (come quelle imposte dalle logiche del "politicamente corretto").Così la prudenza è giusta quando è capace di farsi imprudente, la fortezza è prudente quando sa diventare debolezza mite, e ogni virtù si compie quando fiorisce in agape, dove regna una giustizia può portare a dare il salario giornaliero a chi, incolpevolmente, ha lavorato soltanto l’ultima ora. Fuori da questo orizzonte, il comportamento in sé prudente perde contatto dalla virtù, come chi parcheggia in seconda fila e, 'prudentemente', torce lo specchietto verso la portiera. Se, infatti, non prendiamo sul serio questo paradosso cruciale e (almeno per me) formidabile, la virtù finisce per trasformarsi nel più grande vizio, perché diventa esercizio egoistico teso alla perfezione individuale, dimenticando l’altro. È l
’agape il compimento di ogni azione morale, perché non è mai definita e compiuta all’interno di nessun orizzonte di legge, neanche di quella delle virtù, che l’agape chiama a trascendersi per diventare (paradossalmente) se stesse.
Se oggi chi ha a che fare con le tante periferie morali e antropologiche del mondo non tocca e ogni tanto oltrepassa il confine della giustizia tracciato dalle leggi della città, non può essere veramente giusto. Se quando, quella notte, bussò Alì alla porta del mio amico parroco siciliano, questi si fosse prudentemente fermato sulla soglia della nostra giustizia e non lo avesse accolto nella sua casa (pensando alle conseguenze penali che avrebbe avuto, e che poi ebbe), non sarebbe stato veramente virtuoso. Una dinamica paradossale che conosce chi lavora nelle comunità di recupero, nei carceri minorili, e i tanti che continuano a rischiare carriera, beni, fatturati, posti di lavoro, fallimenti dell’impresa. Non è chiesto a tutti in ogni momento di vivere questa dimensione paradossale della virtù. Ma se non rispondiamo quando l’appello arriva, compromettiamo la qualità etica e spirituale della nostra esistenza, perché non sono atti straordinari di pochi eroi, ma azioni di cui siamo tutti potenzialmente capaci.
Questa virtù-oltre-la-virtù è il lievito che eleva il pane di una vita già virtuosa, e le dà la forza per spostare montagne. Gandhi non avrebbe liberato l’India se non fosse stato virtuosamente imprudente, né Francesco ci avrebbe insegnato la fraternità se imprudentemente non avesse baciato il lebbroso, né tante donne e clochard sarebbero stati liberate e richiamati alla vita se non avessero incontrato sulla strada persone agapicamente imprudenti che hanno voluto e saputo abbracciarli, senza accontentarsi della solidarietà immune che sta riempiendo la nostra economia e, purtroppo, anche una parte del nostro non profit. Il territorio delle virtù – e quindi dell’umano – si estende e si umanizza ogni volta che qualcuno ha l’imprudenza di superare i confini assegnati alle virtù, pagando di persona, e quasi sempre senza sconti. Imprudenze benedette, che spingono avanti la civiltà, e rendono il mondo un luogo degno e bello in cui vivere.