Gesto anti-barbone e filastrocca odiosa. Proviamo a vergognarci anche per quei due
No, non può essere solo questione di potere, di una cattiva interpretazione dell’autorità, di un discutibile culto dell’uomo forte. Né la difesa può presentare come attenuanti una moda distorta, la voglia di visibilità, l’ebbrezza della popolarità via social. Sotto ci dev’essere qualcos’altro, certo di più profondo e doloroso. Magari una ferita mai rimarginata del tutto, un’offesa difficile da perdonare, un’educazione strabica. Altrimenti diventa quasi impossibile capire il motivo, che cosa spinge un uomo a vantarsi dell’arroganza contro i deboli, a ridere delle loro debolezze, a farsi beffe di chi fa più fatica.
Quella andata in scena a Trieste infatti non è nient’altro che l’ennesima replica di un brutta commedia, meglio di un dramma, a danno degli ultimi, con il vicesindaco che prima butta nell’immondizia le coperte e il povero guardaroba di un clochard, compresi però giacche e un piumino, e poi se ne gloria su Facebook. Da «normale cittadino che ha a cuore il decoro della sua città» ha scritto sul suo profilo «ho visto un ammasso di stracci buttati a terra... Non c’era nessuno, quindi presumo fossero abbandonati, li ho raccolti e li ho buttati, devo dire con soddisfazione, nel cassonetto».
Pochi chilometri più in là, a Monfalcone, l’assessore alla sicurezza si improvvisa poeta dello squallore con una filastrocca ispirata alla Befana: «Il migrante vien di notte con le scarpe tutte rotte; vien dall’Africa il barcone per rubarvi la pensione; nell'hotel la vita è bella, nel frattempo ti accoltella; poi verrà forse arrestato e l’indomani rilasciato». Versi, oltretutto orrendi, copiati dal web, si giustifica, e che comunque, aggiunge, non sono offensivi ma rivelano «quello che tutti gli italiani pensano».
Il problema sta proprio lì, nella religione dei sondaggi, nella parole caricate con nonchalance di odio e indifferenza, nel muro di separazione, senza possibilità di dialogo, tra “noi” e “loro”. Dove, come in una teologia laica della prosperità, nel “noi” sono compresi quelli in apparenza puliti e per bene, quelli che hanno una casa e un tetto per ripararsi, quelli a cui tutto è dovuto. E gli altri... che si arrangino. Se proprio devono esistere, vivano di nascosto, possibilmente in silenzio e senza sporcare. Perché nella società che invoca la privacy e poi rende pubblico tutto, gli unici a non avere diritto di voce sono i poveracci, quelli per cui, di solito, ci si commuoveva almeno a Natale mentre oggi, persino durante le feste, se li vedi per strada ti senti autorizzato ad allungare il passo e scivolare via. Lo suggerisce la retorica delle emergenze, comprese quelle che non ci sono, lo chiede il vocabolario della paura, lo impone il culto, per sua natura effimero e volatile, della sicurezza.
Eppure una narrazione diversa è possibile, perché esiste anche un’altra realtà. Fatta non di eroi della carità ma di persone che provano a restare tali, di desiderio di giustizia, di uomini e donne consapevoli che solo per caso sono nate nella parte ricca del mondo e che se domani la carta geografica impazzisse, i poveri potremmo diventare noi. E non è questione di buonismo in saldo, di magliette rosse o di educazione.
Non si tratta neppure di tirare in ballo il Vangelo, escludendo così chi non crede. Non è tanto, o non è solo, un problema di fede. Qui la battaglia, disarmata ovviamente, si gioca su un piano diverso, la sfida da vincere riguarda la capacità di restare umani, valore che non si deteriora mai, moneta che non esce di corso. Una gara, una competizione che non è difficile vincere. Basta scendere dentro noi stessi alla ricerca di quel che conta davvero, è sufficiente riandare con la memoria alle volte in cui siamo stati aiutati, si tratta di immaginare come vorremmo essere ricordati da chi verrà dopo di noi. Il tempo non manca, alla scuola della tolleranza le iscrizioni sono sempre aperte.
E poi in fondo chissà, chi può dire che il buon samaritano, altre volte, anziché aiutare l’uomo ferito, non abbia tirato diritto? Nessuno è perfetto, la differenza la fa la stima di se stessi, il coraggio di vivere la comunità, la capacità di interrogarsi. E di vergognarsi. Sì, parliamo di pudore, della santa vergogna che ci fa dire no al male, anche quello imbellettato di lustrini e gioielli. Quella che, forse per un giorno, forse per l’esempio storto dato da leader rampanti (o presunti tali), è mancata al vicesindaco di Trieste e all'assessore di Monfalcone, quella che speriamo possano ritrovare subito. E che, nel caso, possiamo aiutare noi a riscoprire. Vergognandoci anche per loro.