Proprio come in un 1914. Escalation in Levante e Golfo Persico
È vero che la storia non si ripete. E quindi i paragoni con quanto successo nel passato sono sempre scivolosi e imprecisi. Eppure, da qualche anno appare evidente che il sistema internazionale sottostimi le conseguenze pericolose delle tensioni e dei conflitti che dilaniano il Medio Oriente. Una regione che ricorda i Balcani di inizio XX secolo: se da lì venne la scintilla che spinse l’Europa al massacro della Grande Guerra, oggi la nuova Sarajevo sembra essere più a Sud, nell’arco di crisi che attraversa il Levante e il Golfo Persico.
Un pericolo che si va facendo ancora più acuto per una serie di fattori che soffiano sulle braci dei troppi conflitti attivi. Innanzitutto, l’impetuosa presa di potere da parte del giovane e avventato erede al trono saudita, il principe Mohammed bin Salman, il quale è già il re di fatto dell’Arabia Saudita. Egli ha sposato con forza la linea di un confronto totale con la Repubblica islamica dell’Iran, sostenendo con forza l’idea che quest’ultima sia il nemico da sconfiggere a ogni costo.
Dalle sue dichiarazioni e dalle sue mosse sembra che il principe ascolti quel "partito della guerra", che da anni si muove anche negli Emirati Arabi Uniti, e secondo il quale l’unico modo di fermare l’ascesa geopolitica iraniana sta in un confronto armato, che inevitabilmente finirebbe per coinvolgere gli Stati Uniti e, magari in modo non ufficiale, Israele, alleato di ferro di Riad nell’odio contro Teheran. Gli spaventosi costi umani ed economici di un tale conflitto sarebbero giustificati dall’intervento statunitense che permetterebbe di sconfiggere, una volta per tutte, il nemico iraniano.
Ogni altra soluzione viene considerata da questi nuovi "dottor Stranamore" della politica, come inefficace e controproducente, poiché finirebbe per sancire il predominio iraniano nel Levante. E a nulla serve ricordare che l’ascesa di Teheran di questi due decenni è poco frutto dell’abilità strategica iraniana e più il risultato dei catastrofici errori statunitensi (a cominciare dall’improvvida invasione dell’Iraq) e delle monarchie arabe del Golfo (con il loro sostegno ai gruppi sunniti radicali e con la scommessa perduta della guerra in Siria).
Se i sauditi e i loro alleati non avessero, infatti, negato ogni legittimità al governo a maggioranza sciita dell’Iraq post Saddam (ove gli sciiti sono la maggioranza assoluta della popolazione), se non avessero sostenuto il peggio di quanto l’islam sunnita ha saputo esprimere in questi decenni, se non avessero tollerato – e finanziato – movimenti violenti che flirtavano con il terrorismo jihadista, nel Levante non saremmo probabilmente a questo punto. E Teheran non avrebbe beneficiato così tanto degli errori dei suoi avversari.
Ma sottolineare queste cose non serve. Perché all’ossessione degli emiri del petrolio si aggiungono le scelte politiche di Israele e Stati Uniti. Washington, con la presidenza Trump, sta seguendo con totale acriticità la linea saudita, ribaltando le posizioni dell’Amministrazione Obama. Linea saudita che, nei fatti, rispecchia quella del governo israeliano. Il primo ministro Netanyahu usa da anni il 'pericolo persiano' come arma di propaganda che gli ha permesso di rivincere le passate elezioni, con un populismo che gioca cinicamente sulle comprensibili paure della popolazione israeliana e sostiene l’alleanza di fatto con i sauditi. Questa politica del 'muro contro muro' ha penalizzato in Iran le voci moderate e messo in grande difficoltà il governo del presidente Rohani, che per anni ha cercato di attivare dei canali diplomatici con Riad.
A Teheran ora è evidente come la partita del Levante sia nelle mani dei falchi, convinti che si debba sfruttare il momento favorevole, dato che con le monarchie arabe del Golfo è impossibile raggiungere un compromesso geopolitico. Con la vittoria di Assad in Siria e la polverizzazione di Daesh in cellule alla ricerca di nuovi focolai di tensione, si entra in una fase di nuova incertezza: la sconfitta del Califfato jihadista offre nuovi spazi di scontro fra sunniti e sciiti, rischiando di trascinare verso un conflitto regionale dalle conseguenze imprevedibili per tutto il sistema internazionale. Mentre le voci che invitano le opposte fazioni a un compromesso ragionevole si vanno facendo più flebili, come nel 1914 in Europa.