Due anni fa il grande esodo da Kabul. Le promesse da mantenere
Oggi non si parla quasi più dell’Afghanistan, uno dei Paesi dalla storia più travagliata negli ultimi decenni. Eppure, nell’agosto del 2021, esattamente due anni fa, tutto il mondo si commuoveva per la sorte degli afghani. Erano i giorni in cui le forze militari e civili degli Stati Uniti e dei loro alleati occidentali decisero di ritirarsi, lasciando gli afghani al loro destino. L’intervento americano era iniziato nel 2001 a seguito degli attentati alle Torri gemelle dell’11 settembre, motivato con la guerra al terrorismo di matrice islamista e la punizione dei taleban che gli avevano offerto ospitalità. L’obiettivo primario di Washington era scongiurare che l’Afghanistan diventasse un rifugio sicuro per il terrorismo internazionale di al-Qaeda. All’intervento furono associati corpi militari, aeronautici, operazioni di intelligence e forze speciali di vari Paesi, tanto che Osama Benladen fu ucciso in Pakistan.
L’intervento americano e della comunità internazionale non si è limitato alla lotta al terrorismo, ma ha avuto come obiettivo quello di costruire istituzioni afghane moderne, vicine agli standard minimi dell’Asia centrale, assieme a servizi pubblici essenziali come giustizia, istruzione e sanità, e una qualche forma di rappresentanza politica. Fino al 2020 gli indicatori erano relativamente positivi rispetto al regime talebano del 1996-2001. Le centinaia di migliaia di esuli afghani tornati per ricostruire il Paese, i milioni di bambini e adolescenti a scuola, lo svolgersi delle elezioni, le dighe costruite per portare acqua ed elettricità, le strade e gli ospedali: tutto ciò che era stato realizzato malgrado il contesto di violenza, mai cessata del tutto, con un numero elevato di vittime, ora andava perso.
Decine di migliaia di bambine e di ragazze che frequentavano le scuole, contravvenendo ai terribili divieti imposti dai taleban anche con la forza, erano di nuovo a rischio. Nelle grandi città come Kabul, Kandahar o Herat (dove ha lavorato egregiamente il contingente italiano) era fiorita una presenza nuova: una moderna classe di insegnanti, giornalisti, interpreti e impiegati delle agenzie internazionali arricchiva il Paese. Tuttavia, vent’anni senza vera pace sono sembrati troppi ai decisori della politica: un’operazione che doveva durare poco si era trasformata in un’enorme spesa in armi e mezzi.
Già con il presidente Obama si cominciò a pensare a una exit strategy, ufficializzata poi da Trump e realizzata da Biden. Alla luce di ciò che è accaduto dopo il ritiro del contingente occidentale, possiamo constatare che, a fronte dei costi, quella presenza rappresentava una notevole sicurezza per le forze armate afghane, così difficoltosamente create. Tuttavia, a Washington l’operazione era ormai giudicata troppo prolungata e nulla ha potuto frenare il ritiro. Le notizie sulla smobilitazione occidentale hanno ridato forza ai taleban, che in realtà non si erano mai arresi e avevano creato il caos in varie regioni. Le trattative con il governo Usa sono proseguite per mesi in segreto, senza che nessuno – tantomeno il popolo afghano – fosse informato del suo andamento. I taleban hanno messo in pratica una guerra di logoramento contando sulla stanchezza degli occidentali e hanno avuto successo.
Tutti ricordiamo le file da esodo biblico delle migliaia di afghani spaventati dal ritorno dei taleban che tentavano di lasciare il Paese da un giorno all’altro, fuggendo insieme ad americani ed europei. Le frontiere con il Pakistan e l’Iran sono state prese d’assalto, ma soprattutto una massa di persone si è riversata all’aeroporto di Kabul, la zona più mediatizzata in quei giorni di agosto, nei quali abbiamo visto le scene struggenti di migliaia di afghani in attesa, fino alle tragiche immagini di persone appese alle carlinghe o alle ali degli aerei.
Per i tanti rimasti indietro, particolarmente per coloro che avevano collaborato con gli occidentali, è stata fatta la promessa che non sarebbero stati abbandonati.
Molti sono ancora in attesa che tale impegno si realizzi. Per chi è riuscito a fuggire nei Paesi confinanti la vita si svolge in situazioni precarie nei campi profughi, spesso di fortuna. Grazie ai corridoi umanitari realizzati da Sant’Egidio, Caritas italiana, Federazione delle Chiese evangeliche e Arci, per alcune centinaia si è aperta una via di salvezza in Italia che ha coniugato accoglienza e integrazione. Rimane aperta la ferita per coloro che non ce l’hanno fatta e vengono perseguitati perché appartenenti a minoranze religiose, come nel caso degli hazara (sciiti), e soprattutto per le tante donne, alle quali Avvenire ha dato voce, che soffrono la mancanza di diritti, spesso i più elementari, con l’esclusione dalle scuole secondarie e dall’università o il divieto di lavorare nella sanità o per le organizzazioni internazionali. Qualche osservatore si è spinto a parlare di “gender apartheid”. In ogni caso è bene ricordare che l’Islam ha tutt’altra idea della donna rispetto a quella propagata dai taleban, che corrisponde piuttosto ad antiche regole tribali. C’è da dire che in Afghanistan oggi esiste un livello di corruzione meno elevato rispetto al passato. La domanda che si pone la comunità internazionale è come e su quali basi riallacciare i rapporti istituzionali con il governo afghano. A due anni dal grande esodo del 2021, per moltissimi afghani in patria o nei Paesi limitrofi la promessa di non essere dimenticati resta in attesa di essere mantenuta.