È in corso a Washington l’International
Summit on Human gene editing, la tre giorni che le principali accademie scientifiche internazionali dedicano a una tecnica di manipolazione genetica che promette di rivoluzionare il settore. Molto sinteticamente, e come
Avvenire ha già documentato a più riprese, si tratta di un’operazione di taglia-e-cuci sul Dna, che consente di eliminare geni specifici e anche sostituirli con altri, voluti. La novità non è tanto nell’idea quanto nell’accessibilità della nuova metodologia, ampiamente utilizzabile dalla comunità scientifica sia per la semplicità di esecuzione che per la sua economicità. Nei mesi scorsi anche qualche autore del metodo – per esempio Jennifer A.Doudna, ricercatrice a Berkeley – si era fatto promotore di una richiesta di moratoria su alcune applicazioni della propria invenzione: se da un lato, quando eseguita su individui adulti, è una forma di terapia genica che porta con sé problematiche già note (quelle della sperimentazione clinica su adulti e minori), dall’altro apre enormi problemi se effettuata su embrioni e gameti, quando si rende possibile modificare in radice il patrimonio genetico di esseri umani che poi lo trasmetteranno alla propria discendenza. Si tratta di questioni di sicurezza nella sperimentazione, innanzitutto: quando passare dagli animali agli umani? Si ripropone la domanda sulla liceità e sui limiti della ricerca che manipola e distrugge gli embrioni, che però in questo caso non si esaurisce con un 'sì' o un 'no', ma va oltre: l’eventuale embrione umano modificato dovrà essere trasferito in utero e portato a nascita, e seguìto nello sviluppo e nella discendenza per verificare l’efficacia della tecnica e scongiurarne la pericolosità. Non sono più questioni confinate nella speculazione teorica, ma riflessioni che emergono dall’imminente, concreta fattibilità degli esperimenti, e che aprono un panorama inedito sulla sperimentazione umana. Si aggiungono anche domande su quali modifiche del genoma ammettere e quali no: dove segnare il confine fra interventi terapeutici e di potenziamento? Ci si limiterà a sostituire geni difettosi con altri sani, oppure si cercherà di 'migliorare' il patrimonio genetico andando a modificare alcune caratteristiche, come ad esempio la resistenza fisica, o alcune patologie, se non la scelta dei caratteri somatici? Oltre tutto, alcuni di questi interventi sono già teoricamente possibili dal punto di vista tecnico, ma non se ne conoscono le conseguenze sull’intero sistema genetico che ne verrebbe investito. Quanto vale la pena investire su embrioni e gameti, e quanto invece puntare sul
gene editing in soggetti già nati? E ancora: chi dovrà dettare le regole? La comunità scientifica, i politici, istituzioni apposite? Di tutto questo, cioè degli «aspetti etici, scientifici e di governance associati a questo tipo di ricerca», stanno discutendo le americane
National Academy of Sciences e
National Academy of Medicine, affiancate dalla
Chinese Academy of Sciences e dalla britannica
Royal Society. Ma quello di Washington è solo l’inizio: durante il summit inizia il lavoro del gruppo di esperti per redigere un report che fin d’ora si propone di essere un riferimento per ricercatori, clinici e politici di tutto il mondo. Questo secondo panel è co-presieduto dal bioeticista Alta Charo, dell’Università del Winsconsin-Madison, e dal biochimico Richard O. Hynes, docente al
Massachusetts Institute of Technology: una scelta significativa, che dà uguale peso alle problematiche scientifiche ed etiche che questa tecnica suscita. Del gruppo di esperti fa parte anche l’unico italiano coinvolto nell’intera iniziativa: è Luigi Naldini, direttore del Tiget (Istituto Telethon San Raffaele per la Terapia Genica) e ordinario di Istologia all’Università Vita Salute San Raffaele. Naldini qualche settimana fa è stato invitato dal nostro Comitato nazionale per la bioetica per un’audizione – molto chiara ed estremamente interessante – proprio sul
gene editing, un tema su cui anche il Comitato ha iniziato a lavorare. Senza esagerazioni, quindi, si tratta di un meeting di importanza epocale, autoconvocato da scienziati consapevoli di trovarsi davanti a questioni non più rimandabili, che decidono il futuro della nostra comunità. Sfumano i confini fra naturale e artificiale, categorie che fanno fatica a descrivere quanto sta emergendo dallo sviluppo tecnologico, e si impone invece la domanda su cosa sia l’umano, e dove porre i suoi confini.