Profezia è storia / 4. Casa in-finita è la pienezza
«Io "sapienza sapienza" dico. Ma ne sono lontano, e l’esserci è lontananza. È profonda profondità. Chi può comprenderlo?»
Qoelet 7,23-24
La sapienza è un filo d’oro della Bibbia. È stata il fiore di una delle primavere più estese, colorate e variopinte della storia dell’umanità. Ciò che si manifestò in Grecia come filosofia, più o meno nello stesso tempo tra l’Egitto e la mezzaluna fertile divenne sapienza. Il mito antico e i suoi simboli raggiunsero una nuova età, più adulta e soprattutto finalmente capace di esprimere concetti e realtà che prima restavano avvolte dalla luce accecante (e dal buio) del mistero dell’intero. Il Mythos partorì il Logos. Fu l’invenzione della parola, come nuova epifania della vita e quindi dell’uomo, del mondo e di Dio. Anche se le parole della filosofia non coincidono con quelle della sapienza, si somigliano molto. Giobbe non è il "Timeo" di Platone, il Cantico dei cantici non è il "Simposio", tuttavia riescono a parlare e a capirsi tra di loro. La filosofia nasce dalla meraviglia per un mondo che potrebbe non essere e invece è; la sapienza nasce invece dalla scoperta che la realtà se ben guardata contiene regole, leggi, parole che svelano il senso della vita e insegnano il mestiere del vivere. Una realtà, però, che non è semplicemente il libro della natura, perché essenziale nella sapienza biblica è l’esperienza della Legge e dei profeti, di parole rivelate e tutte dono, mappa essenziale per poter indagare e penetrare il mondo, Dio, l’uomo. Anche nella sapienza l’uomo si meraviglia, ma la prima e fondamentale meraviglia dell’umanesimo biblico nasce dall’esperienza di un mondo abitato da YHWH, dalla sua presenza e dalla sua parola. L’uomo biblico è un sognatore di un uomo diverso perché è un sognatore di un Dio diverso.
Ecco perché la sapienza che troviamo nella Bibbia non è solo un’etica né una teologia. Diversamente e di più delle filosofia greca e delle coeve etiche asiatiche, è storia, perché la presenza stabile di YHWH nel mondo rende le vicende umane vere e non ombra del mondo vero sopra il sole. L’Alleanza è evento decisivo della storia biblica, perché si svolge nel tempo e nel suo svolgersi dà sostanza e verità al tempo e alla storia. La sapienza è allora l’ordito che si intreccia con la trama dei fatti storici per dar vita all’arazzo del mondo; è anche parola umana che dialoga con la parola di Dio in un colloquio intimo d’amore durato millenni – e che ancora continua. È questa sapienza il soffio che ha ispirato la mano degli scrittori di molte pagine bibliche, la chiave di lettura di libri che trattano materie molto diverse (storia, profezia, diritto...). E così, per comprendere anche il senso della storia di Salomone e la parabola del suo regno, è importante leggerle in parallelo con i primi capitoli della Genesi. Salomone è posto dal suo Dio-YHWH al centro di un nuovo Eden, un giardino di beni e di shalom. Come Adam che coltivava e custodiva la terra donatagli da Elohim, Salo-mone amministra un regno ampio, in pace e ricco: «Il re Salomone estese il suo dominio su tutto Israele» (1 Re 4,1), il regno più grande di tutta la storia di Israele: «Salomone dominava su tutti i regni, dal Fiume alla regione dei Filistei e al confine con l’Egitto» (5,1). Al culmine del suo shalom, l’Adam nella Genesi inizia la sua decadenza. Comincia a credere in un logos diverso, quello del serpente, e quindi a negare il discorso della sapienza. Un rinnegamento della sapienza che generò il fratricidio di Caino, il gesto di Lamek e infine il diluvio. Anche i primi capitoli dei Libri dei Re ci mostrano Salomone che giunge al culmine dello splendore e della gloria: «Giuda e Israele... mangiavano, bevevano e vivevano felici» (4,20). E anche per Salomone l’apice del successo coincide con l’inizio del suo declino. Aveva ricevuto il dono della sapienza e lo aveva esercitato: «Dio concesse a Salomone sapienza e intelligenza molto grandi e una mente vasta come la sabbia che è sulla spiaggia del mare. La sapienza di Salomone superava la sapienza di tutti gli orientali e tutta la sapienza dell’Egitto. Egli era più saggio di tutti gli uomini… il suo nome era famoso fra tutte le genti limitrofe... Da tutte le nazioni venivano per ascoltare la sapienza di Salomone» (5,9-14).
Ma, ad un certo punto, Salomone abbandona il sentiero della sapienza e imbocca quello del serpente. La Bibbia non ci dice quando iniziò il declino del suo re più sapiente. Forse, perché, molti sapienti si perdono senza accorgersene. Una lettura sapienziale di questi capitoli (alla luce di tutta la Legge e i profeti) ci può comunque suggerire che la decadenza sia iniziata mentre Salomone stava costruendo il suo capolavoro: il tempio di Gerusalemme. Anche il suo tramonto iniziò nel mezzogiorno. Per una misteriosa legge umana, una delle più vere, è il nostro capolavoro che contiene il germe della nostra corruzione. Perché se il "talento" che abbiamo ricevuto è grande (come lo era quello di Salomone), il suo esercizio spesso ci toglie l’innocenza. L’inizio della nostra decadenza diventa il costo dell’aver portato a termine la nostra opera più importante – «Salomone dette inizio alla costruzione del tempio e la portò a termine» (6,14). Ecco perché uno dei pochi modi per salvare sulla terra qualcosa della purezza con cui ci arriviamo da bambini è non pretendere di concludere le opere che per compito etico iniziamo. È lo shabbat del cuore che può salvare gli altri suoi sei giorni e l’ultimo giorno. Quando riusciamo a rispettare questo shabbat speciale e invisibile, e lo facciamo in obbedienza mite a una legge intima che non abbiamo scritto noi, ma che sentiamo nostra e necessaria, non ci appropriamo del tutto dei doni che abbiamo ricevuto e così non diventiamo padroni della nostra vita (la prima castità, quella veramente ardua ed essenziale, è nei confronti di noi stessi, che ci consente, se praticata, di non auto-divorarci).
Nella vita la sinfonia più bella è l’incompiuta, il nostro vero capolavoro perché non lo è stato nelle forme in cui lo avevamo pensato e voluto. Le conquiste scientifiche più belle sono quelle che non siamo riusciti a risolvere e che quindi possiamo lasciare in eredità ai giovani; la poesia più sublime è quella che ci è arrivata, come sussurro dell’anima, molte volte in molte notti e che al risveglio non siamo mai riusciti a scrivere; è quella parola che abbiamo detto e ridetto detto e ridetto dentro di noi e poi, quando è arrivata lei, ci si è spenta in gola per il troppo dolore ed è restato solo un pianto o un grido – come nel Golgota, quando il Logos divenne muto, e disse il suo capolavoro. Tutto questo può essere chiamato, semplicemente, gratuità. Nella tradizione ebraica le case non devono essere completate: occorre lasciare qualche angolo delle stanze non rifinito, qualche mattone scoperto; per ricordare la distruzione di Gerusalemme, ma anche per ricordare che la vita è sempre incompiutezza.
Il giorno delle nozze lo sposo ebreo rompe con il piede una brocca di vetro, a dire che la festa non deve essere piena. Sono una festa imperfetta e una casa incompiuta possono diventare in-finite. Mettendoci alla scuola della sapienza possiamo capire, allora, anche l’ambivalenza che accompagna l’intera teologia biblica del tempio. La tradizione sacerdotale deve e vuole costruire il tempio; la sapienza, invece, mentre ci narra la sua costruzione ricorda a Salomone, e a noi, che Dio è più grande del suo tempio, e quindi nessun tempio contiene Dio ma solo sue immagini, che la Legge proibisce perché la sola immagine di Elohim lecita siamo noi, creati a sua "immagine e somiglianza": ogni altra sua immagine è solo scarabocchio – il comandamento anti-idolatrico è primariamente antropologico. Paradossalmente, allora, la contaminazione religiosa e l’idolatria che conoscerà Salomone sono già implicite nella costruzione del tempio, sono iscritte nel suo capolavoro. Senza la sapienza non lo capiremmo mai. Quando inizio a costruire un tempio al mio Dio sto dicendo, magari senza esserne consapevole, che è come gli dèi degli altri popoli, e quindi banale come gli idoli di tutti. Iniziare la costruzione del tempio è dunque, per la sapienza, il primo passo nella via della corruzione religiosa. Ma questo gli ebrei lo capirono solo durante l’esilio babilonese, quando la distruzione di quel tempio meraviglioso consentì loro di com-prendere cosa fosse veramente il tempio e cosa fosse veramente YHWH. Quando ritrovandosi senza tempio, senza culto e con un Dio-YHWH scon-fitto, scoprirono la sapienza e non l’abbandonarono più.
E qui si nascondono messaggi preziosi per ogni fede e per ogni religione. Quando i movimenti e le comunità spirituali, fondate seguendo "soltanto una voce", iniziano a costruire templi e santuari ai loro fondatori (fisici o ideali), sta già iniziando la loro corruzione. Quel soffio diverso, quell’Alleanza speciale sta diventando come tutte le altre, quel "dio" differente è in realtà come tutti gli altri "idoli" dai quali volevamo distinguerci quando tutto è iniziato. Non sono i fondatori che fanno i templi (Davide), ma i loro figli (Salomone). Ma è proprio quella costruzione del tempio, intesa come la celebrazione spettacolare della grandezza del proprio carisma («Ho voluto costruirti una casa eccelsa»: 8,13), che in realtà dice che in quel loro spirito non c’è nulla di diverso da quello degli altri popoli. La grande costruzione decreta l’inizio della fine mentre tutto appare come massimo successo. La corruzione del cuore, individuale e collettivo, che inizia mentre stiamo finalmente compiendo quella che pensavamo fosse la cosa più bella e grande che dovevamo fare nella vita, ci dice qualcosa di molto bello anche se drammatico. Che siamo più grandi e belli delle cose più belle e grandi che possiamo fare, perché siamo stati creati per amore e non per utilità, neanche per essere utili al Regno e ai suoi templi.
E se esiste davvero un paradiso – e deve esistere, non fosse altro per i poveri – non ci entreremo per i capolavori che abbiamo costruito, ma per quel pezzettino di anima non corrotto che siamo riusciti a conservare mentre edificavamo le nostre opere più belle; per l’angolo di giardino del cuore che abbiamo lasciato libero senza metterlo a reddito e non per tutti i frutti che vi abbiamo raccolto per noi e per gli altri; per quella sola ragione che abbiamo trovato per andare avanti, non per le novantanove che ci dicevano di mollare tutto; per il talento che abbiamo custodito, non per i cinque che abbiamo investito per arricchire un padrone "duro". Per il peccato che ci ha infangato e umiliato e che un giorno abbiamo finalmente accolto con misericordia, non per le virtù che ci hanno guadagnato lodi e meriti. Ma questa logica diversa della vita ce la può insegnare soltanto la sapienza.
l.bruni@lumsa.it