Primo Maggio. I giusti salari della virtù. La pandemia e il lavoro da più stimare
Una delle eredità della pandemia è lo svelamento della qualità del lavoro di cura e delle sue virtù. Virtù, una parola che avevamo dimenticato, che con il tempo aveva assunto una sfumatura di vecchio un po’ stantia, è tornata al centro della scena pubblica ed etica. Finalmente abbiamo visto molte cose che prima non vedevamo o non vedevamo abbastanza, e tra queste molte, moltissime virtù, soprattutto in lavori dove non riuscivamo a vederle.
Quando, sull’inizio dell’Ottocento, la prima rivoluzione industriale stava cambiando radicalmente il mondo del lavoro, i migliori economisti iniziarono a formulare teorie su come remunerare il lavoro. Prima di loro, il lavoro che passava attraverso il "mercato" riguardava una piccola minoranza di persone. La quasi totalità delle donne ne era fuori, nei campi i lavori erano svolti in regime di servitù dove non si vendevano ore di lavoro ma uomini, gli aristocratici e i nobili non lavoravano e interpretavano il loro non-lavoro come privilegio e libertà: «Il nascere agiato mi fece libero e puro, né mi lasciò servire ad altro che al vero. Mille franchi di rendita sono maggiori di 10.000 provenienti da impiego» (Vittorio Alfieri, "Opere", t. VI).
Tra gli economisti che tentarono le prime riflessioni sui salari c’è anche il piacentino Melchiorre Gioja, che nel suo trattato "Del merito e delle ricompense" nel 1818 scriveva: «L’onorario d’un giudice suole essere maggiore di quello d’un professore di diritto, benché in questo si richieda maggior sapere. La differenza tra questi due onorari rappresenta il prezzo della maggiore virtù richiesta in un giudice. In generale gli onorari crescono in ragione degli abusi che si possono commettere nelle cariche, perché il numero delle persone che offrano certezza di non abusarne, decresce in ragione di questa possibilità» (Tomo 1). Per Gioja, dunque, l’onorario doveva essere direttamente proporzionale alla virtù richiesta da quella data attività. Più la virtù necessaria per svolgere bene un tipo di lavoro è scarsa, più va pagata; più devi resistere alla tentazione della corruzione, più devi essere remunerato.
Una teoria economica della scarsità, quindi, ma dove diversamente dalla teoria dominante già nel suo tempo l’elemento scarso è la virtù. Legare il mercato e il lavoro alla virtù era il tentativo per collegare la nuova società commerciale all’etica delle virtù che aveva retto, da due millenni, la parte migliore dell’anima europea meridiana – quella dei greci, di Cicerone e Seneca, dei padri della Chiesa, dei mercanti italiani, dell’umanesimo civile – e le riforme degli illuminismi. La nuova economia, sebbene incentrata sul vile lucro, poteva essere ancora profondamente morale in quanto la remunerazione del lavoro era ancorato alle virtù.
Gioja, poi, erede e innovatore della tradizione italiana dell’Economia civile, sapeva anche molto bene che le virtù, soprattutto quelle veramente preziose, non si creano con "incentivi" ma si riconoscono con i "premi": «Il danaro, o in generale le ricchezze materiali non sono sufficienti a comprare qualunque specie di servigi virtuosi; ve ne sono molti che non si possono ottenere se non dando in cambio ricchezze ideali, cioè sostituendo le monete onorifiche alle monete metalliche».
Pochi anni dopo il libro di Gioja il concetto di Bene comune è andato in frantumi, considerato troppo paternalista, gerarchico, illiberale. L’utilità soggettiva ha preso il posto della virtù. Avendo rinunciato ad una idea condivisa di Bene, ciascuno può solo cercare il proprio bene-utilità all’interno dei singoli rapporti di scambio con gli altri concittadini. Il mercato è infatti il meccanismo mirabile che rende possibile la vita in comune in assenza di una prevalente idea di bene, perché allinea e armonizza le infinite idee di bene privato dei singoli agenti lasciandole diverse tra di loro. È questa l’assenza della metafora della mano invisibile: «Non ho mai visto fare qualcosa di buono da chi pretendeva di scambiare per il Bene comune» (Adam Smith, "La ricchezza delle nazioni", 1776). L’economia moderna può anche essere letta come fuga dalla virtù in nome dell’utilità, quindi fuga dal Bene comune in nome dei beni privati.
Eppure dietro la sempre più evidente e intollerabile ingiustizia salariale nei confronti delle lavoratrici e lavoratori della cura si nasconde anche l’eclisse dell’etica delle virtù. Perché? Innanzitutto, i lavori virtuosi non sono compresi nella loro "utilità" se non sono collegati all’antica idea di Bene comune. Il contributo di una infermiera o di un insegnante non è infatti riconducibile interamente alla somma dei beni privati dei pazienti, dei bambini e delle loro famiglie. La cura di ogni persona è una sorta di bene pubblico, quanto meno bene meritorio, i cui benefici (e costi) vanno ben oltre la sfera interna dei contratti e del mutuo vantaggio. Ma se eliminiamo la categoria di Bene comune, addirittura la banalizziamo e ridicolizziamo, quando andremo a valutare il "contributo marginale" di un’ora di lavoro di cura faremo semplicemente male i conti, e fisseremo salari sbagliati e iniqui.
Tutti avvertiamo, oggi più di un anno fa, l’urgenza di investimenti maggiori e migliori nella sanità, nella scuola, nella cura. Dobbiamo presto ricominciare a vedere questi lavori con occhiali più adeguati – e le teorie non sono altro che occhiali per guardare la realtà – e quindi a remunerare la cura con stipendi più alti e con più stima sociale. Perché i salari dipendono dalla stima sociale, e lo stesso salario ha anche una componente intrinseca che dice la stima per chi lavora. Senza "aumenti" materiali e immateriali i migliori giovani non si rivolgeranno verso questi mestieri, e continueranno a orientarsi troppo verso altri lavori oggi (spesso troppo) stimati e pagati. La cura, sempre più necessaria, crescerà in quantità e in qualità se prima cresceranno stima e salari.