Medio Oriente. Pressing Usa su Netanyahu: perché il dissenso verso Israele è legittimo
Proteste contro Israele a Rabat, in Marocco
È facile accusare la protesta universitaria contro la guerra a Gaza che si diffonde in molti Paesi, Italia compresa, di essere parziale e basata spesso su disinformazione e semplificazioni. Nessuno, certo, può sensatamente inneggiare ad Hamas, responsabile dell’orribile pogrom del 7 ottobre e di opprimere il suo popolo con una polizia segreta che perseguita il dissenso e si fa anche controllore della moralità pubblica in stile iraniano, come sta emergendo in questi giorni.
Ma, ciò premesso, è difficile non considerare eccessivo e fuori dalle regole il modo in cui vengono attualmente condotte le operazioni militari israeliane contro i miliziani palestinesi. La contestazione al governo Netanyahu, al quale nessuno nei primi giorni dell’invasione della Striscia poteva negare il diritto di colpire i comandi terroristici, è progressivamente cresciuta anche nello Stato ebraico. Se resta inaccettabile ogni episodio di antisemitismo in quanto tale - e si deve qui rinnovare la piena solidarietà alla senatrice Liliana Segre, oggetto di crescenti minacce -, non si può nemmeno silenziare ogni dissenso verso le politiche di Israele nel timore di accrescere il suo isolamento e, quindi, di metterne in pericolo la sicurezza.
È la strada, ancora incerta e accidentata, che sta tentando il presidente Usa Joe Biden: non ha fatto mancare il contributo militare americano nel momento dell’attacco di Teheran, ma ha bloccato, per ora simbolicamente, una fornitura di armi e ha fatto trapelare un rapporto in cui si certifica che le forze armate con la Stella di Davide hanno violato il diritto umanitario internazionale (in base al Memorandum 20 per la sicurezza nazionale, un passo in avanti dell’Amministrazione democratica sul controllo della vendita di arsenali statunitensi nel mondo).
Malgrado qualche frettolosa (e interessata) interpretazione dei dati forniti qualche giorno fa dall’Onu, le vittime a Gaza hanno superato le 35mila, ben oltre, in proporzione alla popolazione, i caduti ucraini o russi in più di due anni di conflitto sanguinoso.
L’equivoco è nato sull’identificazione dei corpi. Per diecimila, non c’è ancora un riconoscimento certo. Per gli altri 25mila, la proporzione è 10mila uomini, 8mila bambini, 5mila donne e 2mila anziani. Questi dati riducono i morti tra i giovanissimi, ma non restringono le dimensioni del disastro umanitario: quasi 80mila feriti, 1,7 milioni di sfollati, 1,1 milioni di persone con scarso accesso al cibo, 24 ospedali messi fuori uso, 625mila ragazzi che hanno interrotto gli studi, per non parlare delle distruzioni materiali (c’è un intero Paese da ricostruire) e delle restrizioni all’arrivo degli aiuti nella Striscia.
La via americana di premere su Benjamin Netanyahu perché si scongiuri un attacco massiccio su Rafah (ma già 450mila persone hanno dovuto fuggire dai bombardamenti) e si giunga finalmente a una tregua si accompagna a un complesso arazzo diplomatico in via di tessitura, che passa anche dai due Stati e da un fronte sunnita ricompattato in funzione anti-Teheran e di conseguenza distante da Mosca. Tuttavia, l’ostinazione sulla linea dura sembra ancora prevalere a Tel Aviv - disposta anche ad abdicare provvisoriamente ad alcuni principi della sua democrazia liberale, si veda l’oscuramento della tv araba al-Jazeera, testimone delle sofferenze dei palestinesi.
Non è quindi sorprendente che la mobilitazione delle opinioni pubbliche – al di là delle complessità della geopolitica e della storia - vada nella direzione della simpatia verso chi sta subendo le più visibili conseguenze di una guerra brutale. Resta sbagliato trascurare l’attacco di Hamas che ha dato inizio alle ostilità e il dramma dei rapiti ancora tenuti in ostaggio, ma non si può nemmeno tacere la lunga esitazione dello Stato ebraico – ed è dire poco – nel perseguire il percorso di diritti e convivenza dei due popoli presenti sullo stesso territorio.
Ci sono motivazioni profonde e anche comprensibili che spingono una parte della società israeliana (non c’è un premier-dittatore da solo al comando, va ricordato) a preferire una postura di difesa armata preventiva. Ma in questa fase sarebbe importante insistere sulle connessioni e le alleanze piuttosto che sulle divisioni, seppure per una presunta buona causa.
Da parte di coloro che chiedono di interrompere i legami accademici con le istituzioni ebraiche si sottovaluta la portata del dissenso che nasce negli atenei; chi grida al genocidio non solo dice una falsità ma blocca anche il dialogo possibile. Un esercito che spara con troppa facilità su obiettivi civili e leader che non hanno un piano di disimpegno da Gaza si alienano molti consensi e ridanno motivi e alibi a vecchi e nuovi nemici: ieri il presidente turco Recep Tayyip Erdogan ha detto che «Netanyahu morirà in cella come il criminale di guerra serbo Mladic». Censurare le proteste antiisraeliane, per quanto unilaterali, sembra dunque un modo per mettere a tacere la cattiva coscienza di uno sforzo diplomatico insufficiente e di una volontà distratta e intermittente nel provare a interrompere il conflitto.
Tutti gli sforzi, compresa la sincera indignazione per tutte le stragi, dovrebbero invece convergere verso una pace giusta e una ordinata nascita dello Stato palestinese in un contesto di stabilizzazione del Medio Oriente, nel quale lo Stato ebraico abbia garantita la propria sicurezza. Chiedere che il costo umano di questo esito sia limitato è una richiesta legittima che ciascuno può sottoscrivere.