Opinioni

Editoriale. Gli Usa stanno bene, gli americani no: quanto peserà l'economia nel voto

Pietro Saccò sabato 26 ottobre 2024

Quando un governo rivendica come un proprio successo una sorprendente crescita economica è raro che abbia ragione. Allo stesso modo, quasi sempre sbagliano quelli che nelle fasi di debolezza dell’economia nazionale se la prendono con i ministri di turno. Le forze e i fattori che muovono i cicli di un’economia nazionale in un contesto globale sono troppo potenti perché un singolo governo, nei pochi anni a disposizione, possa incidere davvero sull’immediato. Chi fa le leggi può cambiare qualcosa, ma è come aggiustare la rotta di una nave già in mare da mesi: gli effetti degli errori e delle scelte azzeccate si vedranno più avanti. È così per tutti. Lo è ancora di più per i leader delle democrazie, che al momento delle elezioni si trovano a essere giudicati dai propri cittadini anche per quello che hanno o non hanno fatto sul piano economico. Almeno in teoria, perché più frequentemente l’elettore medio guarda a come sta andando la propria finanza personale. E tende ad attribuire meriti o colpe a chi governa, avendo molto in conto le proprie simpatie e trascurando invece gli altri fattori che possono avere inciso sulla propria storia economica personale.
Di solito, però, quando l’economia va bene, i cittadini stanno meglio. Così, quando arrivano le elezioni, l’amministrazione uscente può trasformare in consenso parte della soddisfazione economica degli elettori. Se, invece, l’economia va male, la crisi può diventare una zavorra letale alle urne per chi governa. «Are you better off than you were four years ago?», cioè «State meglio di come stavate quattro anni fa?» chiese Donald Reagan agli americani nel dibattito televisivo con il rivale Jimmy Carter che rappresentò una tappa decisiva verso la sua vittoria alle elezioni presidenziali americane del 1980.

Oggi la candidata democratica Kamala Harris si guarda bene dall’interrogare gli elettori sulla loro situazione economica. E per certi versi è incredibile: perché l’economia americana sta vivendo un momento d’oro, il Pil è diretto verso una crescita superiore al 3% sia per quest’anno sia per il prossimo, l’emergenza inflazione è rientrata, il lavoro abbonda e la disoccupazione è solo al 4,3%. Gli Stati Uniti d’America del 2024 a livello economico sono “l’invidia del mondo”, come ha scritto l’Economist nella copertina della settimana scorsa, dove raffigura un rotolo di dollari sparato in orbita come un razzo.

Sarà anche l’invidia del mondo, questa straripante economia americana, ma i suoi cittadini non sono contenti e nonostante la poderosa crescita del Pil domina il pessimismo. L’indice della fiducia dei consumatori, rilevato ogni mese dall’Università del Michigan, è crollato da 101 a 72 punti con lo scoppio della pandemia e non si è mai davvero ripreso. È sceso fino ai 50 punti di giugno 2022, il minimo storico, poi è risalito verso i 78 punti e quindi ha ripreso a scendere: a ottobre è scivolato a sorpresa di nuovo intorno ai 70 punti. «I consumatori continuano a esprimere frustrazioni per i prezzi alti» avvertono i ricercatori: in molti settori economici gli stipendi e più in generale le entrate delle famiglie americane non sono riusciti a tenere il passo dell’inflazione. Un dato che è particolarmente forte per la classe media, che non è riuscita a ottenere gli aumenti di stipendi conquistati invece dai lavoratori di basso livello. Il tutto in un contesto di ampia disuguaglianza: gli Stati Uniti sono l’unica Nazione del G7 in cui l’indice Gini che misura la disparità nei redditi è superiore ai 40 punti, quando è sotto i 35 nelle nazioni Ue del G7 e anche inferiore ai 30 punti in Canada.

La maggioranza degli elettori, insomma, non sta meglio e il Partito Democratico non ha nessun vantaggio elettorale dall’incredibile performance economica di questi anni. Anzi: l’ultimo dei sondaggi che il Financial Times realizza sempre insieme all’Università del Michigan, per la prima volta Donald Trump è davanti a Harris (45% contro 37%) nelle aspettative degli elettori rispetto alla possibilità che i due candidati possano migliorare la situazione delle famiglie. Questo boom economico accompagnato dal flop di consenso ricorda ancora una volta che la crescita del Pil serve a poco se non sa essere inclusiva, cioè se i benefici dell’espansione economica raggiungono solo una minoranza della popolazione. È paradossale che i leader delle democrazie occidentali abbiano lasciato al presidente cinese Xi Jinping il ruolo di alfiere dell’economia inclusiva, ripetutamente proclamata come obiettivo di Pechino dal palco del World Economic Forum di Davos, quasi si fossero dimenticati che è proprio chi deve confrontarsi periodicamente con il voto degli elettori ad avere più bisogno di una crescita economica che sia positiva per tutti.