Editoriale. La politica è anche questione di linguaggio. Quello “basso” è pericoloso
Politica – oggi più che mai – è anche scelta tra linguaggi diversi. Da una parte, c’è quello “basso”: approssimazione, superficialità, fake news; poi espressioni sguaiate, affermazioni tranchant, annunci propagandistici; infine, arroganza, disprezzo, volgarità. È il linguaggio prevalente in questa campagna elettorale, che però non scomparirà dopo il 9 giugno: è infatti il linguaggio dello scontro, sempre legato alla contrapposizione ad un nemico, vero o presunto. Dall’altra parte, c’è quello “alto”: serietà, profondità, rigore; poi analisi, argomenti, risultati; infine, rispetto, dialogo, collaborazione. È risuonato nel dibattito in Senato sul premierato. I media lo hanno quasi ignorato, enfatizzando piuttosto il tentativo di rissa scatenata per silenziarlo: è lo show che prevale sulla notizia. Invece, merita di essere sottolineato che la classe politica dà il meglio di sé in Parlamento, un’istituzione che spinge a tener conto della storia passata, del bene comune e di una responsabilità condivisa davanti al “popolo”. Non è un problema di buone maniere. Né ha a che fare con il formalismo di strutture autoritarie ormai tramontate. Nessuno, inoltre, vuole discorsi involuti, frasi incomprensibili, vuota retorica. La questione è politica. Secondo i populisti, l’“abbassamento” del linguaggio politico è un modo per parlare, comportarsi, essere “come il popolo”. Ma è un’affermazione arbitraria. Non è vero, infatti, che approssimazione, arroganza, scontro siano necessariamente più “popolari” di serietà, rispetto, confronto.
Ogni giorno, milioni di uomini e di donne, buona parte insomma del “popolo” italiano, affrontano i loro problemi, le difficoltà delle loro famiglie e, persino, le necessità di altri senza scaricarli su nemici, più o meno immaginari. Certo, in ciascuno di noi, il “meglio” convive con il “peggio”. Ma c’è un linguaggio che aiuta a far uscire il primo e uno che favorisce il secondo: rispondono a strategie opposte. Il linguaggio “basso” spinge a vivere “contro”, a riconoscersi in un’identità di parte che si contrappone ad altre identità di parte, a dividere la società in aree inconciliabili. Il populismo persegue un obiettivo nascosto che contraddice quelli apparenti di esprimere il popolo, difenderne gli interessi o rappresentarne le istanze. È il fine di separare un’area della società, più o meno grande ma che comunque non coincide con l’insieme, ed esaltarla come il “vero” popolo. Rilanciandola continuamente – con il linguaggio “basso” – attraverso una dura contrapposizione tra chi ne è dentro e chi ne è fuori. Per i populisti, nemici del popolo sono le élites dirigenti, gli immigrati, l’avversario politico, chi usa parole per comunicare e non per inquinare. Questi nemici possono – in parte – cambiare; l’importante è che ce ne sia sempre qualcuno contro cui scagliarsi.
È un approccio che viene da lontano. A spargere i primi semi del populismo è stato, nell’ormai lontano Ottocento, il marxismo, dividendo la società in due classi inconciliabili: operai e borghesi. Più o meno nello stesso periodo lo hanno fatto, con più romanticismo, i populisti russi e, a fine secolo, quelli del New People Party negli Stati Uniti. A scavare un fossato incolmabile tra “patrioti” e “traditori” sono stati poi i nazionalisti europei durante la Prima guerra mondiale e il fascismo ha successivamente ripreso, combinandolo con una violenza esplicita, l’impianto populista della contrapposizione tra “noi” e “loro”. Sono seguiti i seguaci di Getulio Vargas in Brasile, quelli di Juan Domingo Peron in Argentina, i maccarthysti degli Anni Cinquanta... Da molto tempo il populismo minaccia la democrazia americana – Trump non viene dal nulla – e oggi anche molte altre. Ai nostri giorni, i populisti sono un po’ dappertutto. È populista Modi, in India, che “ri-inventa” il popolo indiano come induista, dimenticando “appena” 200 milioni di musulmani. Ma sono populisti anche i politici italiani che non parlano di programmi o di obiettivi e cercano ogni giorno lo scontro tra “noi” e “loro”.
Il linguaggio “basso” non è mai innocente: ha sempre un legame con la violenza. Non necessariamente chi lo usa compie anche atti di violenza. Ma questo linguaggio mette sempre in scena lo scontro, la superiorità dell’uno sull’altro, l’esclusione di questo o di quella. Non è politica ma antipolitica. Perché la politica, quella vera, è il contrario della violenza. Per questo è inseparabile da un linguaggio “alto”. Apparentemente innocuo, il linguaggio “basso” – e tutto ciò che lo accompagna – logora la democrazia e ne svuota le risorse, senza peraltro superare la propaganda, costruire alternative o cambiare le cose. Ma si può resistergli, anzi si deve. Andando a votare l’8 giugno, mentre il linguaggio “basso” alimenta potentemente l’astensionismo. E contrastandolo ogni giorno con l’uso di un linguaggio opposto. La democrazia è oggi un bene in pericolo che richiede vigilanza.