Referendum. Punto di svolta. Voglia di «democrazia proporzionata»
Gli italiani hanno votato. Gli italiani hanno deciso: la Costituzione resta così com’è. E d’ora in avanti sarà difficile, molto difficile, ogni tentativo di riaprire nel senso sinora tentato il dossier della riforma complessiva delle Istituzioni repubblicane. Per ridare loro sufficiente armonia potranno darsi piccole e ben concertate correzioni, ma non nuovi e ambiziosi piani ri-costituenti.
Per la seconda volta in dieci anni, infatti, la grande maggioranza dei cittadini elettori ha bocciato la proposta di una vasta riscrittura della seconda parte della Carta del 1948 imperniata sul superamento del bicameralismo paritario Camera-Senato e del conseguente procedimento legislativo "lento" e sulla correzione (stavolta neocentralista, in precedenza federalista) della complicata e spesso litigiosa collaborazione-competizione tra Stato e Regioni inaugurata malamente con la riforma del 2001. Per sovrappiù – ed è lecito, qui, dubitare di una specifica convinzione – è stato detto un secco No alla cancellazione del Cnel e alla definitiva archiviazione delle Province. Fatto sta che il messaggio inviato è chiaro: meglio tenerci assetti e impacci attuali che correre il "rischio" di avere forze parlamentari e condizioni di governo molto, persino troppo, "forti". Due elettori su tre, tra i tantissimi che domenica scorsa sono andati alle urne, hanno dato questa indicazione. Un rifiuto chiaro e tondo della "riforma Renzi-Napolitano". Che fa il paio con quello scandito nel 2006 davanti alla "riforma Berlusconi-Bossi". Anche se a ben vedere, e a ben ascoltare, questo No, proprio come quello di allora, è tutt’altro che monolitico e continua, anzi, a mostrarsi pieno di sfumature diverse e di aperte dissonanze. L’essere "contro" unisce, ma solo per un po’.
Questo, però, è il risultato. Questo è il punto a cui siamo. Tanti meno non fanno un più. E Matteo Renzi, grande e sconfitto protagonista in una prova elettorale calda che aveva purtroppo assunto un rovente significato plebiscitario, ha coerentemente tirato le somme, inchinandosi al dato di realtà e dichiarando conclusa – con lo stile diretto che abbiamo imparato a conoscere – l’esperienza dei suoi «mille giorni» di governo. Condurrà in porto la manovra per il 2017, onorando – come aveva fatto intuire sin da domenica sera – l’ovvio dovere che ieri il capo dello Stato gli ha confermato, e poi formalizzerà le dimissioni. Si tratta di un fatto politico molto rilevante, frutto anche di alcuni seri errori del presidente del Consiglio e di una serie di efficaci e ovviamente interessati calcoli dei suoi oppositori. Ma è bene non perdere di vista l’essenza di quanto è accaduto nelle urne referendarie di questo maturo autunno della Repubblica. Qualcosa che non può essere sottovalutato e semplicemente strumentalizzato e che va preso molto sul serio.
Il voto del 4 dicembre 2016 è, infatti, un evento di popolo che segna un nuovo e forte punto di svolta nella storia politica e istituzionale del nostro Paese; paragonabile a quello che all’inizio degli anni Novanta del secolo scorso – con i referendum sulla preferenza unica e sul sistema uninominale – chiuse la lunga fase della rappresentazione sostanzialmente proporzionale nel Parlamento nazionale delle grandi correnti politico-culturali italiane e aprì la stagione del maggioritario, dando consistenza al sogno di una matura democrazia dell’alternanza, ma portando in dote il tempo del "leaderismo" e del progressivo indebolimento del rapporto tra elettori ed eletti che ha condotto alla grave crisi della rappresentanza che segna l’odierna fase di distacco e, addirittura, disgusto verso la politica.
C’è voluta un’occasione vera e solenne come un referendum sulla nostra Carta fondamentale e, in definitiva, sulla qualità della nostra democrazia per mobilitare di nuovo passioni potenti, che sembravano svanite. Certo, più d’un politico ha gestito male la campagna elettorale e più di qualcuno avrà votato per antipatia, simpatia o sentito dire, ma tantissimi hanno capito molto bene che cosa c’era in ballo.
E piaccia o non piaccia, oggi la svolta è in senso inverso rispetto a quella di un quarto di secolo fa. Con una qualche semplificazione, si può dire che nell’Italia del secondo decennio del XXI secolo – impoverita e insicura, eppure ancora ricca di energie e capace di generosità e sempre più incline e via via abituata a ricostruire piccoli "parlamenti" locali e digitali – sale un’esigente domanda di ricostruzione di una "democrazia proporzionata", con al centro il cittadino, i suoi veri problemi e le sue giuste attese piuttosto che l’eletto con i suoi poteri, le sue prerogative e i suoi assegni (assurti a simbolo di un’intollerabile condizione di casta).
È evidente che riforme in tal senso – a parte quella della riduzione del numero dei parlamentari – possono essere attuate anche senza toccare a fondo la Costituzione. Alcune in tempi davvero brevissimi, altre semplicemente diffondendo (perché, meglio sottolinearlo, è già presente in più di un partito) un diverso e sobrio stile nel far politica. Ma è ormai altrettanto evidente che quest’attesa di ritrovata proporzione si accompagna a un desiderio di ben proporzionata rappresentanza. Personalmente non ho grandi nostalgie per il proporzionale (tema su cui si concentra oggi l’analisi del costituzionalista Olivetti), ma so che ogni sistema elettorale ha pregi e difetti e soprattutto ho occhi per vedere e orecchie per sentire. E constato che non solo nel Paese è maturato un prevalente sentimento politico anti-maggioritario, ma che una parte non piccola della classe politica ha concreto e legittimo interesse a perseguire questo risultato. Vedremo con quali esiti. E che cosa indicherà ancora la Corte costituzionale che ha già smontato il Porcellum berlusconiano e che si pronuncerà presto sull’Italicum renziano e sul suo controverso premio di governabilità.
L’ultima annotazione è su ciò che giganteggia sul piano politico nel dopo-referendum. A cominciare da una crisi di governo inevitabile anche se al momento "congelata" e, probabilmente ma non sicuramente, di leadership nel Partito Democratico. È vero che Renzi ha sbagliato a personalizzare la campagna referendaria, ma è anche vero che il premier-segretario ha solo anticipato ciò che i suoi competitori avrebbero fatto comunque, forti di un suo grave errore precedente: continuare – anche quando era rimasto di fatto solo, dopo il disimpegno del pezzo di opposizione rappresentato da Silvio Berlusconi – a intestarsi nel lungo viaggio nelle aule di Camera e Senato una riforma che aveva, sì, ricevuto come mandato, assumendo la guida del Governo, ma in quanto "debito d’onore" al cospetto del Paese di tutto il Parlamento – M5S a parte – con l’allora rieletto presidente Giorgio Napolitano. E accompagnarla con un riforma elettorale, l’Italicum, realizzata a colpi di fiducia e permeata da quell’intenzione "maggioritaria" che tanta parte dell’opinione pubblica (e del corpo elettorale) sta dimostrando non solo di non stimare più, ma di avversare.
La traiettoria dell’esperienza di governo e di leadership di Matteo Renzi, innovativa, decisa, generosa, straordinariamente fattiva eppure a tratti sconcertante e, in certi passaggi e su alcuni temi, inutilmente evasiva o divisiva è, in fondo, riassumibile in un numero: 40. Quaranta (per cento), come la soglia per ottenere già al primo turno della "sua legge" elettorale il premio di governabilità. Quaranta (per cento) come il risultato alle elezioni europee che nel maggio del 2014 (con sistema proporzionale puro) lo consacrò leader sulla scena nazionale e continentale. Quaranta (per cento) come la percentuale di Sì ottenuta ieri nel referendum costituzionale. Un promemoria utile a tutti. La differenza tra il trionfo e la sconfitta non sta soltanto nei numeri, ma prima di tutto nella giusta "proporzione" della proposta e dell’azione politica. Vorremmo che fosse questo che ci attende. Ma per il momento c’è solo un aperto campo di lavoro e la saggezza del presidente Sergio Mattarella su cui far conto.